Dopo un periodo di silenzio durato quasi sei anni (e con alle spalle il non entusiasmante Downsizing) Alexander Payne torna a dirigere quello che forse è il suo miglior lavoro dai tempi di Nebraska. The Holdovers (in Italia abbinato con il non azzeccatissimo sottotitolo Lezioni di Vita), proiettato in anteprima nel Fuori Concorso al 41° Torino Film Festival, si presenta come una brillante commedia dolceamara che vanta un Paul Giamatti nella sua più grande interpretazione di sempre. Ma oltre a questo è anche un prodotto complesso e stratificato, capace di dare un nuovo significato al concetto di “nostalgia cinematografica” e al contempo di indagare i buchi neri del sistema di valori americano.
The Holdovers – Lezioni di Vita, un film di Natale ambientato a scuola
Il film si svolge alla vigilia delle vacanze di Natale in un prestigioso liceo privato del New England. Siamo nel 1970 e la Barton Academy è una piccola isola felice dove i rampolli di famiglie bene si godono un’educazione privilegiata mentre il paese è traumatizzato dalle conseguenze della guerra in Vietnam. Il professore di lettere classiche Paul Hunham (Paul Giamatti) è un rigoroso insegnante dedito alla tradizione, detestato dai propri studenti come dalla gran parte del corpo docente e occupato a far sgobbare i suoi alunni anche nelle ultime ore prima dell’inizio della pausa invernale. Ma proprio durante il periodo di chiusura Hunham sarà costretto a dover sorvegliare un gruppo di studenti che, per una ragione o all’altra, non potranno tornare a casa dalle proprie famiglie. Tra di loro, il tanto brillante quanto ribelle Angus (Dominic Sessa), parcheggiato a scuola dalla madre troppo impegnata in un viaggio di nozze col secondo marito. Per una serie di eventi il professore Hunham e Angus rimarranno praticamente isolati durante il Natale, con l’unica compagnia della capocuoca afroamericana Mary (Da’Vine Joy Randolph) a cui è appena morto il figlio in Vietnam. Tre persone “residue” (come da titolo), intese come chi è “rimasto in carica”, ma anche chi è considerato “marginale”. Tre persone alle prese con capitoli ben distinti della loro vita, che finiranno per influenzarsi a vicenda e costruire un microcosmo unico nel suo genere.
L’architettura “vintage” di The Holdovers – Lezioni di Vita
Bisogna subito specificare che Payne non solo ambienta il suo film nel 1970 ma lo gira come fosse girato nel 1970. Fin dai titoli di testa che fanno spuntare i simboli del periodo (il vecchio logo della Motion Picture Association) su una pellicola scoppiettante, volutamente granulata, il film ci riporta indietro nel tempo di cinquant’anni utilizzando tutta una serie di grammatiche nella messa in scena di quell’epoca. Il 35 mm nel formato 1.66:1, la scelta della cromia calda, i movimenti di macchina e l’uso abbondante dello zoom rimandano direttamente alla New Hollywood e a film come Il laureato (1967), Harold e Maude (1971), L’ultima corvé (1973), Paper moon (1973) e addirittura a Tutti gli uomini del Presidente (1976). Ma nonostante la totale aderenza estetica con il cinema di mezzo secolo fa, non ci troviamo di fronte ad un pastiche posticcio, anzi. Nell’epoca della riscoperta in chiave postmoderna dell’antico e della nostalgia (da Stranger Things in poi) in cui l’aspetto principale è la (ri)monetizzazione del passato e del vintage, Payne ristabilisce un’idea di nostalgia che non sia solo patina, contemplazione o citazione. Riesce invece a far dialogare questo impianto d’epoca con il cuore pulsante di un film che non è semplicemente “contesto” ma è soprattutto “contenuto”. Un contenuto meravigliosamente calibrato, finemente recitato e capace di una sintonia sorprendente con temi che sono tutt’altro che passati di moda.
The Holdovers – Lezioni di Vita: un manifesto politico e caustico sulla società americana
La storia messa in piedi dallo sceneggiatore David Hemingson è capace infatti di avanzare numerosi spunti narrativi, spesso lontanissimi tra loro, eppure sempre armonicamente intrecciati. Ci sono l’ambientazione natalizia, il mondo scolastico, il confronto tra generazioni, le questioni familiari, la guerra, il classismo, il razzismo e la malattia mentale. Temi universali e ancora attuali – per certi versi attualissimi – e capaci anche di rendere la pellicola un vero e proprio manifesto politico sulla società americana (di ieri, ma anche oggi) che indaga le storture di un sistema mai così lontano dall’essere ideale o perfetto. Dopotutto i tre personaggi che animano The Holdovers – Lezioni di vita sono anche tre solitudini e tre persone tradite, ognuno dal suo sistema di valori: per Paul Hunham è il mondo accademico di cui è praticamente ostaggio; per Mary Lamb è il sogno della società americana, la stessa che manda a morire in Vietnam i poveri di colore piuttosto che i bianchi benestanti; per Angus è la propria famiglia e un sistema sociale escludente e classista. Se allora è quasi automatico un riferimento all’antiaccademismo de L’Attimo fuggente di Peter Weir, altri elementi possono ricordare l’esistenzialismo di The Breakfast Club di John Hughes e perfino il Profumo di Donna di Martin Brest, soprattutto quando la simbiosi forzata tra il burbero professore e l’inesperto studente diventa occasione di confronto e formazione. Eppure, nonostante la materia pesante e ambiziosa, nella pellicola si ride di gusto grazie a un meticoloso lavoro sulle interazioni sociali e sui dialoghi. Tanto che in tutto il film si insinua un livello gioiosamente caustico e quasi anarchico, come nel miglior John Landis degli anni ‘70.
Un Paul Giamatti da Oscar in The Holdovers – Lezioni di Vita
Se messa in scena e scrittura fanno meravigliosamente la loro parte per rendere The Holdovers – Lezioni di vita un congegno narrativo quasi perfetto, è il valore aggiunto dei suoi interpreti che lo rende un piccolo capolavoro. C’è Dominic Sessa (segnatevi questo nome) che è al debutto sul grande schermo eppure, per intensità e complessità dell’interpretazione, sembra già avere assorbito l’esperienza dei grandi attori del nostro tempo. C’è Da’Vine Joy Randolph, che in un ruolo delicato e difficilissimo è capace di esprimere anche con un piccolo movimento degli occhi o della fronte drammaticità o ilarità. E poi c’è, su tutti, Paul Giamatti, che con la sua andatura storta e il suo occhio strabico prenota con sicurezza una nomination ai prossimi premi Oscar (la prima della sua carriera) interpretando un character insolente, grottesco, debordante eppure irresistibile e di cui, nonostante l’esordio antipatico, ci si inizia lentamente a innamorare fino a rimanerne praticamente folgorati. Raramente in un solo film si azzeccano in questo modo personaggi e interpreti, non solo nella loro singolarità, ma facendoli lavorare ognuno in funzione dell’altro e rendendoli le colonne portanti dell’intera architettura narrativa. Questo trio è già cult.
Dopotutto anche Alexander Payne si conferma un grande autore quando maneggia materiali non suoi, mettendosi al servizio della storia: come in Nebraska abbraccia un impianto narrativo di altri e lo sviluppa attraverso uno sguardo marcatamente didattico eppure spontaneo, capace di valorizzare ogni aspetto della messa in scena senza diventare elemento ingombrante o vanitoso. Il risultato è un film sorprendente che già in molti salutano come il vero ‘outsider’ per la prossima corsa agli Oscar. Uno di quelle pellicole che arriva sul finale di stagione e, improvvisamente, spariglia la gara, supera la concorrenza, conquista un posto al sole al momento delle candidature. Quella di Paul Giamatti certo, ma non solo: perché The Holdovers – Lezioni di vita ha tutte le carte in regola per regalarci ancora molte sorprese.