Nella sezione Fuori Concorso del Roma Fiction Fest è stata proiettata la prima puntata della miniserie statunitense Roots. Remake dell’omonima serie del 1977 e tratta dal romanzo del premio pulitzer Alex Haley, nel team della produzione esecutiva leggiamo i nomi di Mark Wolper, figlio del produttore della prima serie, e LeVar Burton, che nel ’77 aveva interpretato il ruolo del protagonista.
Radici (Roots) racconta la storia dello schiavismo negli Stati Uniti attraverso quattro generazioni di schiavi della stessa famiglia. Quattro puntate, quattro punti di vista e quattro diversi registi a dirigerle.
Il primo episodio è affidato a Phillip Noyce.
Una voice over ci introduce nella storia, che è quella di Kunta Kinte e della sua famiglia; una storia che affonda le proprie radici in un villaggio in Gambia. Kunta (interpretato da un sorprendente Malachi Kirby, Black Mirror) è giovanissimo quando, come vuole la tradizione, viene addestrato per diventare un guerriero mandinga. Vive da uomo libero, anche se lo spettro della deportazione aleggia nelle terre attorno al suo villaggio. Fin quando anche lui viene strappato violentemente dalla propria terra e dai propri affetti per essere venduto come schiavo ad una fattoria in Virginia. Ma Kunta non riesce ad accettare questa nuova, orribile condizione; e soprattutto non capisce come mai invece gli altri schiavi attorno a lui sembrino rassegnati o, come nel caso del violinista (Forest Whitaker, The Butler), adagiati.
Oggi della schiavitù crediamo di avere una certa conoscenza, eppure è sorprendente e doloroso vivere con gli occhi – e l’ingenuità – di Kunta l’iniziazione a quel mondo fatto di negazioni: negazione della dignità, della personalità, della libertà e persino del proprio nome. Perché i padroni ti guardano e ti danno un nome, uno nuovo, che non ti appartiene, proprio come si farebbe con un animale da compagnia.
Phillip Noyce indugia sapientemente nel trasporto degli schiavi verso l’America, un viaggio in mare nella stiva di una nave, in cui – manco a dirlo – il groviglio di corpi seminudi in catene e il modo in cui questi esseri umani vengono trattati dall’equipaggio sono nauseanti.
Quella del trasporto non è l’unica sequenza che mette a disagio lo spettatore; il racconto della schiavitù è drammatico, violento, eppure sappiamo benissimo che è stato edulcorato rispetto alla brutalità che davvero caratterizzava (e in alcuni casi caratterizza) la tratta degli esseri umani.
Un ruolo di spicco è affidato alla musica. Musica tribale, nel villaggio di cui Kunta Kinte è originario; canti in lingua mandinga attraverso cui gli schiavi comunicano tra loro; una ninna nanna che Kunta ascolta da bambino e che si porta a molte miglia da casa. È una musica che fa parte delle radici, così come il nome che il ragazzo rifiuta di abbandonare. Kunta Kinte rivendica con la propria vita il diritto a mantenere saldo il legame con le proprie radici. Già negli anni ’70 la serie omonima aveva segnato un passo importante per la tv negli Stati Uniti. Il finale della miniserie, in onda per la ABC, toccò i 100 milioni di spettatori, rivelando all’America un’importante verità: esisteva un pubblico seriale bianco interessato a storie di persone nere.
Il remake di Roots è un nuovo racconto di schiavitù che, come 12 anni schiavo più recentemente ma anche Django Unchained se vogliamo, si contrappone alla pulizia emotiva che Fleming faceva in Via col vento. Negli Stati Uniti la serie è andata in onda la scorsa estate, ed è utile ricordare quanto parlare di razzismo in questo momento storico, in America, non sia affatto scontato. Nonostante episodi di intolleranza si verifichino ovunque dobbiamo ricordare che questa è una storia scritta da e per gli Stati Uniti; quella Virginia in cui Kunta Kinte viene flagellato rappresenta, per estensione, quel sud degli Stati Uniti in cui ancora oggi alcuni bianchi e alcuni neri non riescono a trovare il modo di convivere.
Il primo dei quattro episodi ha centrato nel segno, soprattutto grazie a Noyce, che non ci risparmia il fastidio della crudeltà, e con le interpretazioni belle e intense di Forest Whitaker e di Malachi Kirby. In particolare Kirby, che abbiamo recentemente visto nei panni di un soldato in Black Mirror, sembra trovarsi perfettamente a suo agio nell’interpretare la fisicità del suo personaggio. Il primo sguardo che getta sugli schiavi che, pur senza catene, lavorano nel campo senza scappare, è impagabile.
Radici: la recensione in anteprima (no spoiler)
Dal 16 dicembre su History Channel il remake della celebre serie datata 1977. Nel cast anche Forest Whitaker.