Cosa ci fa un titolo in lingua unghesere in un film argentino? Presto detto: Kékszakállú in magiaro significa Barbablù, una fiaba scritta dal francese Charles Perrault nel ‘600, elaborata dal musicista ungherese Béla Bartòk e ripresa dal trentottenne filmmaker argentino Gastòn Solnicki. Nella fiaba francese Barbablù è un ricco e cinico signore che vive in un castello e che uccide le mogli dopo averle torturate atrocemente. La sua ultima giovane moglie scoprirà la stanza segreta che nasconde tali atrocità, poi troverà il modo di uccidere il marito e di trascorrere il resto della sua vita godendosi le sue ricchezze. Béla Bartòk compose nel 1911 il melodramma Il Castello di Barbablù dove, a differenza del testo originale, i personaggi si ridussero a due, Barbablù e la moglie Judit, che divennero più il pretesto per sviluppare un’analisi psicologica delle loro personalità che non lo strumento metaforico per ottenere il classico insegnamento morale tipico della fiaba, così come l’aveva scritta Perrault. Il regista argentino Gastòn Solnicki trae libera ispirazione dal lavoro del pianista e compositore ungherese.
Ma una volta svelato il “mistero” del titolo non pensate che i giochi siano fatti. La pellicola di Solnicki è ancora piena zeppa di simboli di non facile lettura, che ne fanno un film ad altissimo tasso allegorico. E’ sicuramente uno spaccato della borghesia argentina che vive in villa con piscina e che non è colpita pesantemente dalla crisi economica ma che deve fare i conti con la noia. Le giornate sono lunghe e piene di problemi, uno dei più grandi, se acquistare polpo o frutti di mare per pranzo; i tempi di cottura sono importanti e naturalmente si sceglie il più rapido per avere più tempo a disposizione per provarsi un vestito o fare un bagno.
Il tema della noia non è nuovo nel cinema. Gastòn Solnicki lo declina con i vizi della piccola borghesia del suo Paese che resiste al crollo dei mercati e perciò si aggrappa sempre più ai suoi vezzi, credendoli in pericolo. La sceneggiatura è molto scarna e il montaggio abbastanza ridondante e ciò fa sì che anche quando irrompe il primo brano del molodramma di Béla Bartòk l’effetto sia piacevole e sorprendente, cosa che si attenua fino ad annullarsi nelle altre incursioni musicali. La pellicola segue la crescita di alcune figure femminili immerse nei loro mondi definibili ma non definiti. Le sequenze prodotte dal regista sono (o forse vorrebbero essere) una sorta di quadri in movimento ma alla sua buona mano non corrisponde la capacità di coinvolgere lo spettatore, il quale rischia di annoiarsi come e più delle protagoniste. La messa in scena è senz’altro funzionale al messaggio che si vuole trasmettere ma spesso si ha la sensazione di una costruzione troppo artificiale, piatta, ostentata, convenzionale ed esageratamente simbolica, tanto da essere border line con il banale. Un fattore decisivo lo gioca forse la rappresentazione di una specifica classe sociale argentina, probabilmente poco conosciuta e compresa dal pubblico europeo. Kékszakállú dura72 minuti, più o meno come il Barbablù di Bartòk. Appare giusta la sua collocazione nella sezione Orizzonti della 73a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Una sezione dove al Lido ci si guarda intorno in un ideale viaggio che attraversa il Globo alla ricerca e alla scoperta di nuove proposte e magari di nuove frontiere del cinema.
Venezia 73: la recensione di Kékszakàllù
A Venezia nella sezione Orizzonti, il film maker argentino Gastòn Solnicki cita Barbablù passando per Béla Bartòk.