«Lo dico sempre: Dune rappresenta una grande e colossale tristezza della mia vita». Così, nel 2020, David Lynch rispose a chi gli chiedeva di tornare con il pensiero al suo film del 1984, adattamento dell’omonimo romanzo di fantascienza di Frank Herbert. Lo stesso libro che Dennis Villeneuve torna ad adattare col suo Dune presentato Fuori Concorso al Festival di Venezia 2021 – coprendo stavolta solo la prima metà del racconto.
A tutti gli effetti quel Dune del 1984 fu un flop piuttosto clamoroso: costato 40 milioni di dollari dell’epoca (al netto dei costi di promozione), a fine corsa in tutto il mondo ne incassò poco meno di 31 milioni. Accolto dal disinteresse del pubblico e dalla derisione della critica, venne definito dall’autorevolissimo Roger Ebert come «un vero caos, un incomprensibile, brutto, inconsistente e inutile vagabondare negli anfratti più confusi di una delle sceneggiature più ingarbugliate di tutti i tempi».
Anche se oggi la belluina spietatezza di quella sentenza ha ceduto il passo a un giudizio più mitigato, a differenza di altri flop dell’epoca – si pensi ad esempio a Blade Runner, che pur ebbe un’accoglienza critica ben diversa – non solo il Dune di Lynch non è assurto mai allo status di cult, ma rappresenta tutt’ora il più grande fallimento nella carriera del creatore di Twin Peaks.
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DUNE, IL ROMANZO DI FANK HERBERT È UN CAPOLAVORO
A rendere paradossale la débâcle del copione firmato da David Lynch è innanzitutto il fatto che che il materiale di partenza fosse preziosissimo. Infatti il romanzo che Frank Herbert pubblicò nel 1965 (primo di un ciclo di sei libri cui poi si aggiunsero anche quelli scritti dal figlio dell’autore insieme a Kevin J. Anderson) è ancora oggi considerato come una delle pietre miliari della fantascienza letteraria e non solo.
Mentre in Inghilterra fioriva il movimento letterario della New Wave fantascientifica, incorporando nel genere i linguaggi della narrativa contemporanea e avanguardista, gli autori sci-fi americani rispondevano in ordine sparso allo stimolo. Herbert, invece, intraprendeva una strada completamente propria e optava per un’ambiziosissima epica politico-religiosa.
LA TRAMA DI DUNE
In un futuro lontanissimo e in parte post-tecnologico, un unico impero domina tutto lo spazio conosciuto, solcato da astronavi guidate da esseri misteriosi, i Navigatori della Gilda Spaziale. Queste creature riescono a effettuare complicati calcoli per i balzi iperspaziali con l’ausilio della percezione extra sensoriale data loro dalla Spezia, o Melange: una droga che si trova unicamente su Arrakis, un pianeta così desertico da essere chiamato, appunto, Dune.
Le grandi e nobili famiglie che si spartiscono il sistema economico galattico puntano ad avere il controllo sull’estrazione della Spezia e finiscono per farsi la guerra fra loro: da una parte la Casa Atreides e dall’altra la casata degli Harkonnen, retta dal malvagio Barone Vladimir Harkonnen e alleata con le truppe d’élite dell’Imperatore, i Sardaukar.
Insomma: intrighi, vendette, politica, misticismo ed ecologia fanno parte di un universo straordinario per complessità e densità di immaginari, in un romanzo al confine dei generi e che ha ispirato buona parte dello sci-fi del secolo scorso. Mentre scrittori come Isaac Asimov e Stephen King hanno ritenuto Dune una delle opere più importanti di sempre, James Cameron e Steven Spielberg hanno più volte ammesso quanto quella narrazione influì sui loro rispettivi mondi fantastici che hanno portato sul grande schermo. Ma più di tutte è forse una frase di George Lucas che ci fa capire quanto il cinema sia in debito con Dune: «senza Dune, Star Wars non sarebbe mai esistito».
L’ODISSEA PRODUTTIVA DI DUNE, UN FILM QUASI IRREALIZZABILE
Non è insomma un caso che molti produttori cinematografici tentarono, fin dall’uscita del volume, di adattare il romanzo di Herbert in un film, dando però vita a una delle più travagliate odissee produttive della storia del cinema. Il primo tentativo fu, nell’estate del 1971, quello di Arthur P. Jacobs (il produttore de Il Pianeta delle Scimmie) che decise di opzionare i diritti cinematografici su Dune. Jacobs però morì nell’estate del 1973, mentre i piani per il film (con il regista di Lawrence d’Arabia David Lean già assegnato alla regia) erano ancora in fase di sviluppo.
IL DUNE DI JODOROWSKY: 14 ORE DI FILM CON DALÍ, ORSON WELLES, MICK JAGGER, MOEBIUS E I PINK FLOYD
Nel 1974 un nuovo tentativo fu fatto da un consorzio francese, guidato di Jean-Paul Gibon, che coinvolse per la regia Alejandro Jodorowsky. Fu uno dei progetti cinematografici – mai realizzati – più folli di sempre. Jodorowsky si immaginò un kolossal fantascientifico in cui avrebbe coinvolto i Pink Floyd per le musiche, Dan O’Bannon (Alien) per gli effetti visivi e artisti del calibro di Moebius/Jean Giraud per curare le scenografie psichedeliche e new age. Per il cast vennero individuati Salvador Dalí che avrebbe dovuto interpretare l’Imperatore, Orson Welles per il Barone Harkonnen, Mick Jagger per Feyd-Rautha e David Carradine come Leto Atreides (Paul invece sarebbe stato impersonato dal figlio del regista, Brontis Jodorowsky).
Quando sulla carta il film raggiunse una durata di circa 14 ore i produttori abbandonarono le ambizioni di Jodorowsky; eppure il lavoro che il regista cileno e il suo team svolsero in quei mesi ebbe un impatto significativo sui successivi film di fantascienza realizzati da Hollywood (e lo racconta bene un documentario, Jodorowsky’s Dune).
RIDLEY SCOTT ALLA REGIA DI DUE FILM DI DUNE PER DINO DE LAURENTIIS PRODUTTORE
Dopo l’ennesimo fallimento produttivo i diritti su Dune vennero acquistati nel 1976 dall’italiano Dino De Laurentiis che incaricò Herbert di scrivere una nuova sceneggiatura nel 1978. Il nuovo script fu consegnato nelle mani di Ridley Scott che aveva intenzione di dividere la storia in almeno due film, lavorando alle bozze della sceneggiatura con in testa La Battaglia di Algeri di Gillo Pontercorvo. Tutto bene finché Scott, stanco di una pre-produzione lenta e faticosa, decise di mollare per girare un altro film di fantascienza, sulla carta meno ambizioso (era, ovviamente, quel capolavoro di Blade Runner).
Di nuovo ad un punto morto e con i diritti di adattamento quasi in scadenza, nel 1981 De Laurentiis stava per abbandonare definitivamente l’idea di adattare il libro di Herbert sul grande schermo quando la figlia Raffaella, dopo aver visto The Elephant Man, individuò in David Lynch la mente creativa che avrebbe potuto finalmente lavorare seriamente al progetto.
THE ELEPHANT MAN PORTA DAVID LYNCH VERSO DUNE
C’è da dire che in quel periodo David Lynch – fatto che non si ripeterà più nella sua carriera – era uno dei registi più corteggiati di Hollywood. Proprio The Elephant Man, prodotto da Mel Brooks, aveva ricevuto elogi dalla critica e commosso il pubblico di mezzo mondo, fino a conquistare otto candidature agli Oscar di quell’anno. Lynch fu così tanto sulla cresta dell’onda che gli venne offerto di girare persino Star Wars – Il Ritorno dello Jedi (rifiutò, pare, con una grande risata). Ancora oggi resta un mistero il perché, al contrario, accettò senza riserve di prendersi a cuore il progetto “maledetto” di Dune.
Ma forse il motivo è da rintracciare proprio nel fatto che il romanzo di Herbert era esattamente un anti-Star Wars, l’opposto totale dello sci-fi per famiglie. Dopotutto Lucas aveva reso la fantascienza un luogo sostanzialmente amichevole, un immaginario riconducibile ai vecchi western degli anni ‘50 in cui eroi ed antieroi trovavano comodamente il loro posto. Niente di più lontano dall’universo creato da Herbert: oscuro, barocco, labirintico e a tratti impenetrabile, una vera e propria fantascienza per adulti (coraggiosi).
DUNE, UN RACCONTO IMPENETRABILE GIÀ A PARTIRE DALLA LINGUA
Il linguaggio stesso di Dune era costituito di parole arcane ed enigmatiche che bombardavano il lettore e lo proiettavano in mondi incomprensibili. Kwisatz Haderach, landsraad, gom jabber e sardaukar, per dirne alcune, tutte proferite con poco o quasi senza contesto. Molto più efficace a livello di scrittura usare parole più immediate come “la forza” o “il droide” per rappresentare gli stessi concetti ma con termini più decifrabili e alla portata di tutti.
Insomma, se l’obiettivo di De Laurentiis era creare, come nel romanzo originale, un mondo che fosse completamente alieno, forse allora la scelta di Lynch fu quasi obbligata: chi meglio del regista di Missoula, esperto in scene oniriche e criptiche, poteva dare vita agli scenari inquietanti come l’inferno post-industriale del pianeta natale degli Harkonnen? La stessa cosa avrà pensato Lynch, che con Dune avrebbe potuto avere l’occasione di piegare la fantascienza al proprio personalissimo universo interiore, allo stesso modo come fece Kubrick con 2001: Odissea nello spazio. Eppure non andò esattamente così.
DUNE (1984) DI LYNCH E QUELL’ORA DI FILM TAGLIATA DA DE LAURENTIIS
Dopo aver lavorato per sei mesi alla sceneggiatura (con la collaborazione di Eric Bergren e Christopher De Vore), Lynch iniziò le riprese il 30 marzo del 1983 con a disposizione un budget di oltre 40 milioni di dollari. Girato interamente in Messico, Dune ha richiesto 80 set costruiti in 16 teatri di posa e una troupe totale di 1700 persone. Per l’epoca sono numeri che fanno girare la testa ma, nonostante questo, per Lynch il vero problema non fu tanto la produzione, ma il montaggio.
Dune ha infatti il grande difetto di essere un’opera difficilmente riassumibile in tempi cinematografici convenzionali e questa fu la vera sfida di tutti i registi che in qualche modo si cimentarono nell’adattamento del romanzo (pensiamo, appunto, a Jodorowsky). Lynch riuscì a condensare l’epopea del libro in tre ore di girato.
La Universal e i finanziatori del film però rifiutarono fin da subito di rilasciare una pellicola così lunga, ordinando un taglio standard di non oltre due ore di film. Operazione, di fatto, impossibile. Lynch fu costretto a eliminare numerose scene, a girarne di nuove e – insieme a Dino e Raffaella De Laurentiis, che avevano l’ultima parola sul montaggio finale – a introdurre delle voci fuori campo per velocizzare la narrazione (compresa una nuova introduzione, quella recitata ad inizio film da Virginia Madsen).
Contrariamente a quello che si pensa, Lynch non ha mai realizzato altre versioni di Dune: una versione televisiva è andata in onda nel 1988 in due parti per un totale di 186 minuti in cui il monologo di apertura della Madsen era sostituito con immagini di concept art, ma Lynch ha rinnegato anche questa versione chiedendo e ottenendo che il suo nome fosse rimosso dai titoli di coda.
LA PIAGA DEGLI SPIEGONI PER IL REGISTA DELL’INSONDABILE: IL DUNE INDIFENDIBILE
Ancora oggi il più grande rimpianto di Lynch è quello di non aver avuto il controllo sul montaggio finale: ma non basta questo per spiegare i giganteschi errori dentro la pellicola che sono – fino a prova contraria – decisioni prese dal regista (e scrittore) di un film.
Un autore il cui primo film di 90 minuti (Eraserhead – La mente che cancella) aveva 20 pagine di sceneggiatura, e che quindi era riuscito elegantemente a infrangere la regola del minuto per pagina, finì per adattare un film rifiutandosi di fermarsi alla sua continua esposizione e infrangendo – in modo molto meno elegante – la regola d’oro del cinema di finzione: mostrare, non spiegare. Dune porta questa anti-regola a un tale estremo attraverso la scelta narrativa più sconcertante di tutte, ovvero con i personaggi che spiegano, in stile telenovela messicana, quello che stanno pensando tramite una voce fuori campo.
Laddove in altre narrazioni David Lynch si è sempre rifiutato di offrire interpretazioni chiare e dirette su ciò che sta accadendo sullo schermo, Dune è un continuo e imbarazzante “spiegone” di quello che succede, quasi come se Lynch provasse un piacere sadico nel negare la possibilità che sia lo spettatore a scoprire da solo i pensieri o le sensazioni dei personaggi. Nonostante questa scelta che avrebbe dovuto rendere più facile il dispiegamento della storia, il film appare in ogni caso incoerente, salta da una narrazione all’altra senza nessuna cura per il climax (che non esiste), riducendosi ad essere una sorta di opera confusa, disorganica e disorganizzata.
L’unico alibi (se così vogliamo chiamarlo) per Lynch è di essere sempre stato un regista più a suo agio nell’indagare dentro luoghi (o non luoghi, come un orecchio mozzato) piccoli e personali che finivano per essere estensioni dell’oscura psiche dei suoi personaggi. Dune, al contrario, viaggia attraverso mondi, dimensioni e pianeti diversi, eppure nessuno di questi sembra davvero ignoto come lo sono state le periferie e le case familiari apparentemente minuscole di Lumberton (Velluto Blu), Twin Peaks, o Mulholland Drive.
Lynch insomma, gioca bene nel piccolo, in casa, fra quattro mura o al massimo fra quattro strade. Quando è costretto a esplorare un universo strutturato che fa concorrenza al proprio universo destrutturato, rischia di perdersi, sacrificando la sua visionarietà alla semplice osservazione delle cose.
Questo è ancora più evidente nella mancanza, in Dune, di personaggi inquietanti. Eppure si pensi a con quanta semplicità i leggendari “cattivi” di Lynch, come Frank Booth (Dennis Hopper) in Velluto Blu o BOB (Frank Silva) in Twin Peaks, sono riusciti a perturbare e ad angosciare lo spettatore. Al contrario i cattivi in Dune sono, senza volerlo, delle caricature quasi ridicole: si guardi Sting (che interpreta Feyd-Rautha Harkonnen), mentre cerca di fare il cattivo un po’ psicopatico e un po’ cool senza riuscire a fare bene né l’una né l’altra cosa. In questa rappresentazione del male tutt’altro che convincente, Lynch, oltre alla stroncatura della critica, si attirò addosso l’ira della comunità gay per aver dipinto il barone Harkonnen (interpretato da Kenneth McMillan) come un omosessuale crudele (si pensi alla scena in cui aggredisce sessualmente un giovane, uccidendolo) e rappresentandolo con una malattia della pelle che ricordava le piaghe dell’AIDS (remind: siamo negli anni ‘80).
UN MONDO VISIVO AFFASCINANTE E ALCUNI MOMENTI VISIONARI: IL DUNE DA RIVALUTARE
Se nella sua globalità il Dune di Lynch è un film assolutamente da dimenticare (per chi lo guardato ma anche per chi lo ha realizzato), incapace di trasmettere un senso compiuto della storia che vuole raccontare, ci sono alcune cose che si possono salvare, e che, per certi versi, hanno segnato la successiva cinematografia di Lynch.
C’è una bellissima sequenza, maestosa e criptica, in cui l’Imperatore (José Ferrer) incontra una Gilda Spaziale, un frammento attraversato da una sorta di magia nera che ricorda alcune scena della Black Lodge di Twin Peaks.
C’è la scelta azzeccata di alcuni attori, principalmente quella dell’allora esordiente Kyle MacLachlan, che grazie a Dune diventò per Lynch quello che Mifune fu per Kurosawa, Kinski per Herzog o De Niro per Scorsese (fanno capolino anche Everett McGill che riapparirà poi in Twin Peaks e Dean Stockwell che animerà una delle scene più iconiche di Velluto Blu).
C’è la colonna sonora dei Toto (aiutati da Brian Eno e da Daniel Lanois), che certamente non sono i Pink Floyd ma riescono comunque a creare delle atmosfere sintetico-barocche perfettamente in sintonia con gli scenari del film.
E poi, appunto, c’è la scenografia: gli ampi interni barocchi dei palazzi e i vasti paesaggi industriali di Dune sono uno spettacolo da guardare e l’unica cosa che sembra effettivamente essere il risultato di un lavoro eccezionalmente lungo e alla fine perfino riuscito. Non è un caso che, prima della sua morte avvenuta nel 1986, lo stesso Herbert affermò di essere molto soddisfatto della rappresentazione del film di Lynch del suo universo, come se fosse una versione illustrata del suo romanzo.
DUNE È L’ERRORE CHE HA PERMESSO A DAVID LYNCH DI COMPRENDERE DEFINITIVAMENTE CHI FOSSE
Dune uscì 14 dicembre 1984 e alla fine della stagione, come già anticipato, incassò solo 30 milioni di dollari contro i 40 messi a budget. Se da una parte per Lynch si aprì uno dei periodi più difficili della propria carriera, dall’altra il regista imparò da quell’esperienza che il suo cinema aveva disperatamente bisogno di autonomia creativa piuttosto che di soldi.
Due anni dopo, per il film successivo, Lynch non commise lo stesso errore e chiese a Dino De Laurentiis una completa libertà artistica, inclusa l’ultima parola sul montaggio finale; in cambio decise di ridursi lo stipendio, chiedendo solo 6 milioni dollari di budget per la produzione del suo nuovo lungometraggio. Ecco, quel lungometraggio, Velluto Blu, finì per diventare una delle opere più piccole e allo stesso tempo più meravigliose della storia del cinema, vero punto di (ri)nascita autoriale del David Lynch che conosciamo oggi.
Allora, forse, per il regista del subconscio, il fallimento di Dune più che un incidente di percorso fu una tappa quasi obbligata per prendere consapevolezza del proprio personalissimo e straordinario modo di fare cinema. Per dirla come Paul Atreides: “padre, il dormiente si è svegliato!”