Dopo aver portato sul grande schermo la vita di Touko Valio Laaksonen in Tom of Finland, il regista finnico Dome Karukoski torna dietro la macchina da presa per un nuovo biopic, Tolkien, nelle nostre sale dal 12 settembre su distribuzione 20th Century Fox. La pellicola vede Nicholas Hoult (La Favorita) nei panni di John Ronald Reuel Tolkien, il grande scrittore e accademico britannico noto per aver creato l’universo narrativo de Il Signore degli Anelli, e si concentra sugli anni di formazione dello stesso.
TOLKIEN, L’IMPORTANZA DEL LINGUAGGIO E TROPPI CLICHÉ
Nonostante Karukoski cerchi chiaramente un tono medio capace di soddisfare ogni tipo di pubblico, nel corso dei 115 minuti del film lo spettatore è portato più volte a chiedersi con quale criterio gli sceneggiatori abbiano pensato di conciliare la molteplicità di intrecci e linee narrative, che nonostante singolarmente riservino spunti interessanti, non concorrono in alcun modo a delineare un focus preciso sulla figura dell’autore di Lo Hobbit e Il Silmarillion.
Sullo sfondo di un’esistenza inquieta, tra aspettative verso il futuro e amori vissuti male, Tolkien delinea i bagliori dell’immaginazione tolkieniana soprattutto in relazione all’esperienza-limite della guerra, nella quale il costante pericolo di vita aiuta il protagonista a trovare una nuova pienezza di senso che trascende la quotidianità. I sentimenti non ricambiati e la vita precaria della trincea diventano così gli elementi di aggancio alla vita reale, mentre tutto il resto si nutre di fantasie tratte da racconti leggendari e, soprattutto, un profluvio di parole.
Coerentemente con la crescente importanza assunta dal linguaggio nel pensiero filosofico del ‘900 e con l’ambiente Oxfordiano del J.R.R. Tolkien cattedratico, la lingua è infatti investita di un peso fondamentale nel film. Nonostante la maggior parte del metraggio si presenti come un susseguirsi molto poco elegante di logori cliché, vi sono pochi momenti catartici nei quali lo script si innalza di livello e la riflessione sulla funzione della lingua in quanto portatrice di culture, significati, valori ed essenze si manifesta nella sua pienezza. Sono queste parentesi ad arricchire la pellicola di una dimensione che rende giustizia soprattutto al Tolkien linguista e a offrire una vera chiave di lettura per l’opera tutta.
Il grande autore fantasy di fatto era capace non solo di attingere dai grandi miti e dalle grandi leggende nordiche, ma anche di utilizzare la parola in sé – e il suo valore fonestetico – per farne scaturire significati, costruendovi storie. Come ci ricordava anche Richard Kelly in Donnie Darko (2001), ne è un esempio il termine cellar door (la porta della cantina), che ha un suono ammaliante a prescindere da quale sia il banale significato cui fa riferimento. È da quest’idea della lingua come di uno strumento capace di elevarsi e ricollocarsi rispetto a uno scopo, di un flusso continuo ricontestualizzato rispetto a una storia, che nasce una sorta di misticismo che diverrà la cifra di quel John Ronald Reuel Tolkien capace di segnare la letteratura inglese.
UN PROBLEMA DI ASPETTATIVE: È UN FILM SU TOLKIEN QUANDO NON ERA ANCORA TOLKIEN
L’alta riflessione sul senso della lingua – in parte affidata alla sensibilità dello spettatore – è sì l’aspetto più interessante del film di Karukoski, ma ne è anche quello meno rilevante; annegato com’è in topoi dal sapore hollywoodiano tesi a romanzare il personaggio e creare un’empatia con lo spettatore generalista.
Dapprima generazioni di lettori e poi, grazie al lavoro di Peter Jackson, generazioni di cinefili hanno imparato ad avere un’idea ben precisa e un’opinione elevatissima del lavoro dello scrittore di Bloemfontein, e ad esse non possono che accompagnarsi aspettative importanti. Di quel Tolkien con cui abbiamo tutti familiarità, però, non ritroviamo molto nel film – e può anche essere comprensibile. Quello interpretato da Nicholas Hoult è un Tolkien che ancora non aveva trovato se stesso, che ancora non aveva scritto il proprio capolavoro. Da qui l’esigenza di recuperare il suo vissuto ordinario, a volte scapestrato e non sempre interessante; il cui valore simbolico viene conferito retrospettivamente dallo spettatore.
Esiste un destino che si costruisce nel tempo, uomini che decidono di esser definiti dalle proprie scelte e dalle proprie passioni. Tolkien vuole essere – e vi riesce in parte – proprio questo: il racconto di origini di un individuo di straordinario talento capace di dare una risposta al nostro eterno bisogno di storie, e di diventare per questo una leggenda – al pari di quelle che raccontava.