Originariamente doveva limitarsi ad essere la documentazione di una performance musicale di Nick Cave & The Bad Seeds legata all’album Skeleton Tree, ma nel corso della sua realizzazione One More Time With Feeling, il film di Andrew Dominik (L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford) presentato fuori concorso a Venezia, ha finito per trasformarsi in un toccante documentario sul momento più difficile della vita del musicista australiano: quello successivo alla morte del figlio quindicenne Arthur avvenuta nel luglio 2015.
Il Nick Cave raccontato da Dominik, all’inizio, è un uomo a pezzi, senza autostima e senza futuro.
Il lutto è senza dubbio il tema che percorre tutta la pellicola, e mentre Nick Cave si mostra vulnerabile come non mai, le sue parole testimoniano un crollo profondissimo. Si sente un musicista finito, senza più voce, che non è in grado nemmeno di ricordare gli accordi dei propri pezzi, che sottolinea di aver “perso la fiducia in se stesso, nel mondo, nelle cose buone“. Che non ha più giudizio. Che non si riconosce né riconosce sua moglie. Che non crede al fatto che Arthur “continui a vivere nel nostro cuore”. È lì, ma non vive né vivrà più; è un capitolo chiuso. “Le cose perse hanno massa o peso?“, si chiede.
Le liriche di Skeleton Tree, straordinariamente potenti e toccanti, abbandonano l’approccio narrativo a favore di suggestioni più indefinite. “Ho capito che la vita non è una storia. È decadimento e declino, è uno sforzo sempre maggiore.”
Se l’amico e collega di sempre, Warren Ellis, ha pudore nel parlare del dramma vissuto dal cantante, è Cave stesso ad abbandonarsi con sconcertante fragilità alle confessioni e a condividere terribili banali momenti di vita privata. “Ricordo di quando una volta in strada un amico mi chiese come stessi, e scoppiai a piangere a dirotto gettandomi sulla sua spalla. Poi mi resi conto che in fin dei conti non si trattava nemmeno di un amico, ma solo di un conoscente.” Eppure ricorda che, nonostante fosse involontariamente aggressivo con tutti, era circondato da una gentilezza meravigliosa che però aveva un retrogusto di compassione. “Mi ero reso conto di esser diventato oggetto di pietà. Ma mi ripetevo che dovevo ricordarmi di essere gentile a mia volta, dovevo ricordarmi di essere gentile“.
Uno dei momenti più neri raccontati nel documentario è il ritrovamento di un disegno ‘premonitore’ del figlio deceduto.
Susie Bick, moglie di Cave, racconta controllando a stento l’emozione del recente ritrovamento in magazzino di un disegno fatto dal figlio a 5 anni, e allora inspiegabilmente collocato in una cornice nera con un passe-partout nero, che raffigura il mulino davanti al quale sarebbe caduto nel vuoto dieci anni dopo. Nick siede al suo fianco, guardando nel vuoto.
“Mi ripetono sempre che i traumi offrono qualcosa su cui scrivere, ma io non riesco più a scrivere nulla di decente. Il nostro trauma ha danneggiato molto il nostro processo creativo”, si sforza di asserire con lucidità.
Ma in tanto dolore, poi emerge una luce. “There’s more Paradise in Hell than we’ve been told.”
“Mentre ti spegni, c’è un momento in cui capisci che devi accorgerti degli altri, desiderare di essere felice, decidere di essere felice.” E siccome la moglie e il fratello gemello di Arthur sono ancora lì, vivi, al suo fianco, “la felicità diventa un gesto di vendetta“. “Torni indietro, rileggi i testi di qualche tempo prima, che ti sembravano del tutto insignificanti, e invece li trovi bellissimi. Cambia la prospettiva sulla vita, ritrovi una tua strada”.
“Il mondo affonda e tutto è fantastico, esiste una bellezza gratuita che ci circonda”
Il documentario di Dominik, percorso dalle note dei nuovi pezzi, finisce per raccontare la caduta ma anche la rinascita. Un percorso doloroso ma necessario. E lo fa con un linguaggio esteticamente perfetto, senza mai annoiare, e forte di un bianco e nero semplicemente mozzafiato (il cui settaggio meticoloso richiesto a Venezia dal regista comporta venti minuti di ritardo nell’entrata della stampa in Sala Grande) e con un 3D, per una volta, meravigliosamente funzionale alla narrazione e girato con i giusti tempi. Un racconto realizzato con grande rispetto, ma che pur addolorando trasmette un messaggio di speranza. Perché nell’Inferno c’è più Paradiso di quanto ci dicano.