Dopo un film, all’uscita dalla sala, è frequente sentire commenti sulla bellezza della ‘fotografia’ di una pellicola, nonostante i compiti del direttore della fotografia rimangano per molti oscuri. Eppure l’autore della fotografia cinematografica, come andrebbe preferibilmente chiamato, incide in modo decisivo sul risultato finale ed è a lui che spettano molte delle decisioni creative sulla ripresa. La scelta del formato, la progettazione illuminotecnica, la selezione delle macchine da presa e degli obiettivi, i movimenti di macchina, la composizione della scena, la correzione del colore e addirittura a volte il movimento degli attori nello spazio e le operazioni di macchina: sono tutti aspetti dei quali ha o può avere il controllo questo ruolo così defilato ma fondamentale.
È proprio uno dei più grandi direttori della fotografia contemporanei, Luca Bigazzi, che abbiamo incontrato all’Alessandria Film Festival, dove ha tenuto a battesimo la prima edizione della manifestazione. Il pluripremiato Bigazzi, braccio destro di Paolo Sorrentino ma spesso al fianco anche di Silvio Soldini, Gianni Amelio, Carlo Mazzacurati, nella sua sterminata filmografia ci ha regalato immagini che mai scorderemo e momenti iconici degni di entrare nella storia del cinema. Nella lunga chiacchierata ci ha offerto uno sguardo approfondito sulla sua professione e ci ha stupiti con affermazioni forti.
Sette David di Donatello, sei Nastri d’Argento, tre Globi d’Oro. E poi l’Oscar per la miglior pellicola straniera a La Grande Bellezza e un’infinità di altri riconoscimenti. Cosa si prova ad aver vinto così tanti premi?
Io sono un catalizzatore, raccolgo il successo del lavoro di tutti: i miei riconoscimenti vanno anche alla troupe che lavora con me, ai registi, alla squadra con cui collaboro. Ho la fortuna di lavorare da molto tempo con una serie di ottimi professionisti, con cui mi intendo a meraviglia: il capo degli elettricisti, ad esempio, è con me da ventotto anni. E anche con i registi, la questione è un po’ la stessa: con Sorrentino ci intendiamo senza nemmeno doverci parlare.
Hai sempre sostenuto che la velocità sia un fattore non indifferente nel tuo lavoro. Perché?
Nel mio mestiere la velocità è un dovere, perché più tempo rubo per le luci, più danneggio un film. Si tratta, insomma, di una questione di generosità, di controllo, evitando dei personalismi che trovo ripugnanti: in un film, quello che “passa” al pubblico sono la recitazione, le inquadrature, il lavoro degli attori che ci mettono la faccia, in prima persona. Non è il mio film, ecco. Inorridisco quando mi riconoscono nella fotografia di un film: vuol dire che non sono stato abbastanza aderente a ciò che regia e sceneggiatura richiedevano, vuol dire che c’ho messo del mio.
Con il proliferare dei web service il mercato dell’audiovisivo sta cambiando profondamente. Manchester By The Sea, prodotto da Amazon, è arrivato agli Oscar, e Netflix sta producendo un numero impressionante di pellicole ad alto budget che verranno rilasciate direttamente sulla propria piattaforma nel 2017. Cosa ne pensi di questo ‘cinema’ che progressivamente si sposta sul piccolo schermo?
I film vanno visti al cinema. Il cinema è una delle poche attività artistiche collettive, e come tale va visto collettivamente, in sala, nonostante il vicino rumoroso e quello che sgranocchia pop-corn, perché è l’unico modo di suscitare quella empatia fatta anche di comunicazione non verbale, quella socialità che è l’unico antidoto a questa epoca di isolamento pericoloso, presente nonostante i social-network ed internet. Il cinema va visto al cinema, è l’unico modo per salvarlo.
Eppure anche la serialità televisiva può essere una grande cornice narrativa. Anche tu, con The Young Pope hai incontrato il piccolo schermo.
The Young Pope è un lungo film che è stato trasmesso in televisione, ma che secondo me avrebbe avuto seguito anche sul grande schermo. È fatto di immensi bagni di luce e profondissime ombre, abbagliante e scurissimo, proprio per provocare lo stereotipo grigio della televisione, ed è girato in tempi inaccettabili, dodici episodi in ventiquattro settimane. Ma di piccolo schermo non sono esperto: non ho tv, non mi piacciono le serie. Una delle poche cose buone, però, è che permette di seguire il film in lingua originale, evitando quella sciagura che è il doppiaggio, che andrebbe bandito per legge dagli attori. La televisione ha il vantaggio, da questo punto di vista, di educare il pubblico alla lingua originale.
Questi “immensi bagni di luce” di cui parli erano generalmente di luce naturale. Sei da sempre un grande sostenitore dell’illuminazione ambientale, e le possibilità offerte oggi dalla tecnologia portano a privilegiare sempre più questo approccio. Eppure nella scuola italiana c’è ancora un certo conservatorismo.
Ad essere onesto non so se sia colpa dell’industria o delle scuole, in cui si insegna, forse, un’illuminazione che andava bene negli anni ’60, ’70, ’80, ma che oggi non funziona, sia perché cambiano gli strumenti, sia perché si modifica il gusto del pubblico. Io, però, non ho mai fatto nessuna scuola di cinema, e mi è stata risparmiata tutta la trafila che tocca invece a chi si affaccia a questo mondo, passando anni di gavetta e arrivando a far qualcosa in là con l’età. Sono un fortunato: il mio compagno di banco si chiamava Silvio Soldini. Siamo cresciuti insieme e le strade si son divise: lui studiava cinema, io lavoravo come segretario d’edizione nella pubblicità. Ad un tratto, Silvio mi propone di fare un film, “io regia e tu inquadrature”, mi dice. Così è stato, abbiamo girato un lungometraggio in bianco e nero, e io mi sono affacciato al mondo del cinema senza, di fatto, sapere nulla di cinema. Appassionato ero appassionato, s’intende: mi piaceva la nouvelle vague, mi entusiasmavano i dibattiti post proiezione, frequentavo spesso le sale. Però la scelta delle luci era dettata dall’inesperienza, più che dall’ispirazione, e non avendo grandi conoscenze cosa più ovvia era la luce naturale. La cosa fondamentale era – ed è – che il pubblico ci creda: un film deve essere realistico per coinvolgere lo spettatore e le luci devono adeguarsi, senza mai restare uguali.
Considerata la tua posizione sull’illuminazione artificiale, immagino sia superfluo chiederti se preferisca girare in digitale o in pellicola…
Anche qui, è ora di smetterla con la nostalgia. Il digitale è interessante, più economico e riproduce ciò che l’occhio vede meglio di come non faccia la pellicola, è più sensibile e legge bene le ombre. Il cambiamento, però, non è stato recepito. Quando ho iniziato questo lavoro mi sono adattato a fatica con il contrasto della pellicola e nel momento in cui è arrivato il digitale ho avuto l’opportunità di rendere reale la luce che pensavo. Ovviamente, però, se non comprendiamo la diversità del mezzo di ripresa e applichiamo le luci che potevano funzionare negli anni ’60, ’70, ’80 e ’90, il risultato è senza senso, artificioso e falso. Attenzione, anche a non credere che la luce naturale sia “semplice”, perché non c’è nulla di più complesso: il girato di un giorno è nelle mani di un elettricista capriccioso, il sole, che mette nuvole come filtro e aumenta o diminuisce l’intensità della luce. Lavorare con il digitale significa accettare un utilizzo completamente diverso della luce e il conservatorismo che si radica in determinate posizioni è devastante. La mia fortuna è che sono libero: non so niente, so di non sapere nulla.
Tu che il cinema italiano lo fai e lo vivi, cosa ne pensi? È troppo vincolato al passatismo o è un terreno fertile?
Lo dico dal cuore, e non perché ci lavoro: il cinema italiano è una meraviglia, riesce ad essere potente e al tempo stesso aderente alla realtà, pur avendo una terribile scarsità di mezzi e risorse. Siamo usciti dal gorgo degli anni ’70 e ’80, anche grazie al dialogo, alla collaborazione. Quando eravamo giovani, noi non eravamo soli: piccole società di produzioni indipendenti si erano consociate, permettendo così ai giovani registi di conoscersi e di realizzare le proprie pellicole. Ecco, ai giovani dico questo: non restate soli, unitevi per uscire dall’isolazionismo. La facilità di accesso ai mezzi – il primo film con Silvio costò una follia solo di pellicola, mentre oggi c’è il digitale – ed il fatto che, ad esempio, ci siano meno videomaker e giovani registi rispetto al passato, è una grande contraddizione dei nostri tempi, che va di pari passo con la tremenda catastrofe rappresentata dalla chiusura delle sale cinematografiche. Ma del resto anche una produzione giovane fa la differenza: prendete Il Divo, che è, secondo me, il film più bello che io abbia mai fatto. È stato possibile grazie al coraggio di Nicola Giuliano e Francesca Cima, che ci hanno permesso di realizzare una pellicola con pochi mezzi e senza nessuna interferenza politica.
Proprio ne Il Divo, nell’interazione con lo spazio come nell’abbattimento della quarta parete, è evidente un’intesa particolare tra Toni Servillo e la macchina da presa. Tu in passato hai dichiarato di sentire una sorta di “empatia mistica” con alcuni attori. Ce ne vuoi parlare?
Io faccio l’operatore di macchina, che per un’assurdità è un altro mestiere, in Italia, rispetto al direttore della fotografia. Un’inquadratura corretta conta, secondo me, molto più di una luce artistica e da questo punto di vista l’operatore di macchina è strettamente legato all’attore, al punto di crear con lui un’intesa che permette la riuscita della ripresa. Ecco: questa magia ha a che fare con l’intuito, con l’istinto, ed è la cosa davvero importante del mio lavoro. Il cinema, del resto, è una somma di persone che si intendono senza parlare.
E in che modo i movimenti di macchina possono valorizzare o penalizzare quello che succede in scena?
Non sopporto più la camera a mano, che dà quella ripresa tremolante, che non capisco e mi confonde. E credo che certe mode, come i droni, siano destinate a sparire. Anche la steadycam a volte è fastidiosa, dà quella illusione di orizzonte che si flette, pare di stare in un acquario. In questo lavoro, più siamo invisibili più siamo bravi. L’attenzione dello spettatore non deve andare ai movimenti di macchina ma alla storia.
Spesso, seduti davanti a uno schermo, ci si dimentica di quanto duro lavoro ci sia dietro quella ‘magia’. Orari proibitivi, trasferte, tensione, responsabilità… Cosa vuol dire, per te, ‘fare cinema’?
Sia chiaro: mi considero fortunatissimo per le soddisfazioni che il mio lavoro comporta, ma credo che spesso ci si dimentichi delle difficoltà fisiche, mentali, affettive e di precariato. Per questo mi sconvolge il disprezzo di Renato Brunetta, che dice che “la cultura non si mangia”: per questo paese, il nostro paese, la cultura è l’anima, e dovrebbe essere valorizzata a dovere, sostenuta. Proprio questo suo triste ragionamento fa il paio con chi sostiene che chi faccia cinema sia un privilegiato. Non dovremmo mai smettere di ricordarci quanto sia seria e importante l’industria culturale per questo paese. Ora sta soprattutto alle nuove generazioni capire questa opportunità.