Novecento, il film corale del 1976 nel quale Bernardo Bertolucci dirige Robert De Niro, Gerard Depardieu, Laura Betti e Donald Sutherland e Burt Lancaster, ha lasciato un’impronta nel cinema italiano e internazionale, e lo ha fatto rimarcando il valore e il senso dello slancio utopistico che cade sotto il realismo cruento dell’eterna dialettica della lotta di classe. Ora questo capolavoro dalla durata monstre di cinque ore e diciassette minuti (quasi una miniserie, diremmo col senno di poi) torna grazie a CG Entertainment in una nuova e imperdibile edizione integrale restaurata in 4K supervisionata da Bernardo Bertolucci e dal direttore della fotografia Vittorio Storaro e curata da 20th Century Fox, Paramount Pictures, Istituto Luce – Cinecittà e Cineteca di Bologna, con la collaborazione di Alberto Grimaldi e il sostegno di Massimo Sordella presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata. Nel doppio cofanetto blu-ray trovano spazio anche degli interessantissimi extra: tra i contenuti speciali il contributo audio Novecento, con le parole di Bertolucci, i documentari Centoventi contro Novecento (54′) sulla memorabile partita di calcio Bertolucci contro Pasolini alla Cittadella di Parma e Bertolucci secondo il cinema di Gianni Amelio (62′), nonché una selezione di out-takes e scene tagliate (purtroppo mute).
NOVECENTO DI BERTOLUCCI: L’UTOPIA E LA CIRCOLARITÀ
Il 27 Gennaio del 1901, giorno della morte di Giuseppe Verdi, nelle campagne emiliane nascono contemporaneamente Olmo Dalcò (Gerard Depardieu), da una povera famiglia contadina, e Alfredo Berlinghieri (Robert De Niro), figlio di un ricco proprietario terriero. Due vite che si incontrano e si scontrano, sullo sfondo di 45 anni di Storia italiana intessuta di guerre mondiali, conflitti sociali, tradizioni che permangono e una coscienza di classe emergente.
Un affresco più forte che obiettivo, segno potente di un’utopia socialista curata e proposta da un neo-realismo di confine, che la colloca all’origine della storia, più che alla sua conclusione. Un’utopia che si dissipa in una figurazione verista, nell’eternità di un ciclo che fa dell’atto conclusivo del film, il 25 Aprile 1945, un momento di breve conquista, ricucendo la liberazione con la prigionia, la pace con la guerra, l’inizio con la fine.
UN 1900 di CARNE, SANGUE E CAMPAGNE EMILIANE
Così, Novecento non ha di certo bisogno di presentazioni, né tantomeno di altre possibili interpretazioni che finirebbero per inflazionare tutti i livelli di lettura che il film presenta. Specchio di un cinema lontano ma sempre da riscoprire, con la sua forte ascendenza al realismo storico; fotogrammi di carne e sangue e non di CGA: una forma d’arte di cui si avverte il bisogno, nell’era imperante del virtuale. Non c’è necessità di grandi effetti speciali, ma bastano fotogrammi e sequenze che eternizzano il movimento della vita nel suo ciclo naturale, su quello sfondo sociale così crudo, ma anche dolce, che è la vita dei contadini, dei braccianti.
I colori e l’ambientazione, già da subito, ripropongono in maniera forte le tonalità di quel Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, overture trionfante del sogno socialista, nonché dello stesso film. Esistono, però, anche gli intermezzi reali e brutali della guerra, quella fra nazioni, quella fra affamati, quella fra servi e padroni; e mentre il panorama mondiale cambia, Bertolucci contrappone alle grandi visioni e progressioni geopolitiche la quiete di un mondo contadino che rimane immutato, come immutato è il motivo del compianto Ennio Morricone e quelle note che, ricorsive, tornano nelle sequenze che inquadrano i campi.
BERNARDO BERTOLUCCI CON MILLET
Nel microcosmo delle campagne, però, si ripropone la filosofia dell’eterna lotta, dei bisogni e degli scontri fra forme diverse di necessità: la fame di cibo e la fame di ricchezze dei signorotti di provincia, il cui tramonto è alle porte; i contadini soffrono di condizioni insalubri, di vita malandata, di orecchie tagliate e bambini affamati.
C’è qualcosa di idillico, però, in questa sofferenza: il sapore di ere concluse, nascoste nelle pieghe della storia; le immagini di un contadino dimenticato dal tempo, nella bellezza del suo passeggiare fra i campi e che Bertolucci ama ritrarre nel suo Novecento, come Millet fece con il suo Angelus. E forse quel contadino è ancora lì, che passeggia con il fieno sulle spalle, resto simbolico di una cultura ormai trascorsa ma che lascia il ricordo nei fotogrammi eterni di e del Novecento.
UN FILM SUL ‘900 CHE RACCONTA ANCHE LE FORME DEL MALE
All’ idillio del primo atto, in cui l’unico male è quello generato dalle condizioni naturali di carenza, si contrappone la tonalità forte, scura, pesante del male radicale del secondo atto: un male frutto dell’ignoranza e che si propone nel viso cattivo del fascista Attila (Donald Sutherland). Un male che non si ferma, che non pensa, che non riconosce il valore dell’innocenza, un male banale.
E qui, insieme al tema del male umano, quello crudele, volontario, perverso, deformato dalla cattiva ideologia, si dispiega la visione politica di Bertolucci. Una visione non asettica, ma determinata, di parte, orientata e che ritrae le storie parallele di un ordine sociale e del suo disfacimento, che dipinge le complesse relazioni umane, nonché lo sgretolarsi del sogno dalla sua costruzione ideologica con l’incedere del reale.
LA SPIEGAZIONE DI NOVECENTO, UN’OPERA POLIVALENTE E ‘MORALISTA’
Olmo e Alfredo nascono e vivono in un arco temporale breve ma denso di cambiamenti: essi sono lo sguardo dello spettatore e del procedere storico degli eventi attraverso le loro narrazioni esistenziali nella Storia. Così, mentre i contadini riscattano i loro diritti, le vecchie classi nobiliari, quelle dei possidenti terrieri, appoggiano il fascismo come arma contro l’ascesa sociale delle classi meno abbienti.
Bertolucci è di parte: dirige un film storico, ma ideologicamente indirizzato. Novecento è un dipinto degno del realismo francese, un romanzo verista, un trattato di antropologia, una narrazione storica, una ricostruzione filosofica; Novecento non è né poesia, né filosofia, è cinema, opera di un moralista. Si avvale di registri linguistici che oscillano fra il letterale e il figurativo, senza mai abusarne ma lasciando tutto nelle mani della storia e della sua ricostruzione.
«IL PADRONE È MORTO!» DALLA LOTTA DI CLASSE AL FASCISMO
Se il primo atto analizza l’emerge della coscienza di classe contadina e il sollevamento contro l’abuso dei padroni, il secondo vede questi ultimi fare leva sul fascismo per mantenere la propria posizione sociale, nuovamente delegittimata sul finale con la Liberazione.
“A cosa serve il padrone?” urla il popolo: un grido che rappresenta la fine della rivolta dopo la liberazione, atto conclusivo del ciclo che aspira alla fine della lotta di classe, nonché all’abolizione delle classi stesse. Olmo – ormai rappresentante pieno della cultura contadina in riscatto, contro il suo ex-amico e neo-signorotto Alfredo – urla: “Allegri compagni, il padrone è morto!”. È una catarsi ideologica, in cui non è necessaria l’eliminazione fisica del padrone ma basta solo delegittimare il simbolo di cui il padrone è portatore, quella antica aura sacralità che contorna la lotta di classe; solo così la dialettica servo-padrone si scioglie: nel momento dell’autocoscienza storica del servo.
Alfredo Berlinghieri, l’uomo, l’amico di Olmo, vive ma il padrone muore: è la capitolazione ideologica della subordinazione di una classe che, adesso, si riscatta assumendo coscienza di sé nella propria autonomia; non c’è più eteronomia, dipendenza dal padrone, da quell’alterità cancerogena che vincolava l’identità del contadino.
«IL PADRONE È VIVO!» LA LIBERAZIONE E IL MOTORE DELLA STORIA
Sulla scia del canto contadino, del colore rosso, del tepore del sole, della fine della guerra e del fascismo, delle urla di vittoria, ecco che la liberazione accade come evento storico, utile a riscattare la coscienza di classe, di quel quarto stato che, finalmente, esce dalla staticità di un dipinto e si fa carne, sangue e storia. Così, come in tutte le ciclicità, la fine si ricongiunge con l’inizio.
Al pari di come accadeva nelle prime sequenze del film, Olmo e Alfredo si prendono fino alla fine a spintoni: un eterno litigio infantile, quanto infantile rimane la lotta di classe nel suo eterno riproporsi. La lotta continua, e qui sta l’effetto conclusivo dell’affermazione di Alfredo “Il padrone è vivo”; la lotta, la dialettica delle identità nella mutua opposizione, il pòlemos inestinguibile, nel suo articolarsi, è ciò che sospinge gli eventi in un movimento circolare che, anche se visto di profilo, assume sempre meno una configurazione spiralica, appiattendosi eternamente e spingendo avanti la storia.