Per tutto il corso del ‘900 il tema dell’alienazione dell’individuo è stato al centro del dibattito culturale e sociale. Intellettuali e artisti non hanno mai smesso di riflettere sulle conseguenze della società di massa, che di fatto può esser vista come causa scatenante di questo fenomeno (almeno per come lo conosciamo oggi). Se però nell’era dell’ubiquitous computing l’alienazione è un tema caldissimo legato principalmente alla dipendenza delle nuove generazioni da una tecnologia pervasiva, c’è stato un tempo in cui era un contenitore concettuale dai confini fumosi in cui far ricadere un ampio spettro di disturbi di natura psicologica e psichiatrica. Gli “alienati” della nuova limited series prodotta da Cary Fukunaga (regista e produttore della prima stagione di True Detective), ambientata nella New York del 1896, rientrano proprio in questa categoria: sono individui che la società non riconosce come ordinari e perciò nasconde, segrega ed esclude.
UN CRIME DRAMA INCENTRATO SULLA PSICHE
Daniel Brühl (Captain America: Civil War) interpreta il medico psichiatra Laszlo Kreizler, il quale si definisce un “alienista”. Non si prefigge di curare le malattie mentali dei suoi pazienti, bensì di alleviare i loro dolori. Specializzato nella cura dei bambini, viene chiamato in causa da un commissario di polizia affinché indaghi sull’efferato omicidio di un ragazzino italo-americano. Alla loro indagine si uniranno presto John Moore, illustratore del New York Times (Luke Evans, La Bella e La Bestia e FF8) e Sara Howard (Dakota Fanning, The Twilight Saga), unica donna a lavorare in polizia in mezzo ad un manipolo di uomini.
L’episodio 1×01 di The Alienist, The Boy On The Bridge, racconta in 45 minuti la “discesa negli inferi” compiuta da un gruppo di borghesi e intellettuali, i quali cercheranno di risolvere il caso addentrandosi nei bassifondi della città, popolati da malati, poveri, prostitute, criminali e alienati. Vuole essere, quella prodotta da Fukunaga, una serie che aspira a rappresentare la New York di fine ottocento: melting pot culturale e città dedita al progresso (interessante, da questo punto di vista, la varietà d’accenti con i quali parlano i protagonisti) e al contempo metropoli fuori controllo, nella quale le differenze fra le classi agiate e disagiate è incolmabile. A fronte di un “corollario” così interessante, ben curato nelle ambientazioni e arricchito da splendidi costumi, a deludere è proprio la trama principale.
LO SCENEGGIATORE DI DRIVE E L’INIZIO IN SORDINA
Nel primo episodio di The Alienist lo sceneggiatore Hossein Amini (già autore per Drive di Refn) e il regista Jakob Verbruggen (House of Cards, Black Mirror) decidono di descrivere a malapena i protagonisti, affidandosi a qualche stereotipo di troppo per far partire la storia (decisamente rivisto il topos dello psichiatra come ‘genio incompreso’, per esempio), trasgredendo inoltre a una fondamentale regola della servilità televisiva: far appassionare da subito lo spettatore.
In The Boy On The Bridge succede poco e, sebbene non sempre “poco” sia sinonimo di noia, ci si ritrova ad ammirare i costumi e le scenografie piuttosto che la trama. Come detto, infatti, nulla viene lasciato al caso in termini di confezione dello show, mentre a languire è semmai la parte creativa e di inventiva: ci saremmo aspettati da un autore di rilievo come Amini una caratterizzazione migliore o una invenzione, in sede di sceneggiatura, che permettesse di seguire il pilota con maggior curiosità. A salvare The Alienist, almeno per ora, è un colpo di scena finale che riporta alla luce un vecchio caso di omicidio, probabilmente connesso con quello del giovane italoamericano.
La nota più dolente, tuttavia, è quello che riguarda la sottotrama che ha come protagonista Sara Howard. Nel 2018, in un periodo storico nel quale più che mai c’è bisogno di personaggi femminili convincenti, è inammissibile che la caratterizzazione di uno di essi passi soltanto attraverso lo stereotipo dell’unica donna forte in un mondo di uomini. Negli ultimi anni abbiamo visto gloriose serie con protagoniste indimenticabili (Handmaid’s tale e Orange is the new black, giusto per citarne due); donne carismatiche, profonde, scritte con cura e dotate di virtù e di difetti. Sulla scorta di questa tendenza a ruoli femminili tridimensionali, si dimostra profondamente errato il concetto che sta alla base del personaggio di Sara Howard, come se raccontare una donna in quanto tale bastasse a convincere la spettatore. Se il modo in cui viene presentata la protagonista femminile sembra schiavo di una certa pigrizia in fase di stesura, c’è da sperare che il prosieguo della miniserie (di cui non è escluso un rinnovo in forma di serie) regali al ruolo della Fanning un arco narrativo soddisfacente.
L’Alienista sarà disponibile in Italia su Netflix a partire dal 19 aprile.