L’artista cinese Ai Weiwei ha sempre amato cimentarsi con sfide creative di ogni sorta. Figlio d’arte (il padre era il poeta Ai Quing), dopo aver conseguito il diploma all’Accademia del Cinema di Pechino si è dedicato all’illustrazione, per poi abbracciare a tutto tondo il mondo dell’arte contemporanea e arrivare a distinguersi a livello internazionale. Molte le sue opere ospitate dalle più importanti gallerie e musei di tutto il mondo, tra cui la celebre (almeno nell’ambiente) scultura lignea Map of China, realizzata con i legni dei templi distrutti della dinastia Qing, o la suggestiva installazione Sunflower Seeds, con cui ha cosparso cento milioni di finti semi di girasole in porcellana (realizzati e dipinti a mano da 1600 artigiani della città di Jingdeshen) sul pavimento della sala turbine della Tate Modern di Londra. È proprio con lo studio svizzero Herzog & de Meuron, responsabile della trasformazione della centrale termoelettrica di Bankside nella nuova galleria Tate, che Ai Weiwei si è distinto anche nel mondo dell’architettura, collaborando come consulente artistico alla realizzazione del Beijing National Studium per le Olimpiadi del 2008 – tra le altre cose.
C’è poi la sua prolifica attività di documentarista. Dal 2003 Ai Weiwei ha realizzato oltre venti documentari sulle più svariate tematiche (la maggior parte dei quai decisamente dimenticabile), ed è proprio con una pellicola incentrata sui flussi migratori che si presenta ora in concorso alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Human Flow, questo il titolo del film, è il risultato di un viaggio lungo un anno nei luoghi delle grandi migrazioni umane; una raccolta di testimonianze registrate in ben 23 paesi (tra i quali Afghanistan, Bangladesh, Francia, Grecia, Germania, Iraq, Israele, Italia, Kenya, Messico e Turchia) tra confini, campi profughi, centri di permanenza temporanei e rotte migratorie.
In una fase storica in cui è in corso un vero esodo da parte delle popolazioni del terzo mondo o di paesi sconquassati dalla guerra verso il ricco Occidente, il tema che sceglie Ai Weiwei per la sua opera è il più attuale in assoluto e le opportunità narrative che gli si prospettano davanti sono pressoché infinite.
L’artista cinese è da sempre sensibile alle tematiche umanitarie e, nella sua volontà di ritrarre l’ibridazione tra i popoli come un futuro non solo auspicabile ma inevitabile, potrebbe offrire un punto di vista profondo sull’esistenza umana e sull’idea stessa di società. A dispetto di ogni speranzosa premessa, però, Human Flow di Ai Weiwei finisce per rivelarsi un guazzabuglio disordinato, ipertrofico e addirittura a tratti insensibile, in cui nell’interminabile durata di oltre due ore e venti (nulla, rispetto alle 150 ore di un suo altro documentario) si susseguono senza alcuna logica spezzoni girati sciattamente in giro per il mondo.
Ai Weiwei non è particolarmente interessato né a raccontare le realtà da cui provengono quelle donne e quegli uomini disposti a tutto pur di trovare una nuova casa, né a raccontare quel che accade dopo lo spostamento che documenta. Si limita invece a sovrapporre senza alcuna selezione o costruzione narrativa filmati su filmati – troppo spesso addirittura quasi insignificanti – che, sì, commuovono per il dramma umano che raccontano, ma che al contempo non contribuiscono in alcun modo all’ambizioso intento antropologico con cui Weiwei si riempie la bocca.
In tal senso, complice l’utilizzo – ormai di gran moda – delle carrellate a volo d’uccello con il drone, lo sguardo del regista sembra asettico quanto quello di un naturalista che documenta la stagione delle grandi migrazioni: infatti non solo Ai Weiwei non riesce a comunicare l’intimità, la drammaticità e l’importanza sociale di quel che riprende, ma addirittura fa subentrare un detestabile protagonismo che lo porta a farsi riprendere continuamente (e a costruire in fase di montaggio il film sulla propria presenza).
L’impressione è che il Cinese si stia dedicando a una qualche forma di turismo della disperazione, un divertissement per un ricco artista annoiato che però rimane vanesio anche davanti alla nera disperazione dei profughi. Ai Weiwei pare così volersi vantare di poco spontanei gesti di carità verso questi sfortunati, inserendo nel montaggio finale ciò che il buon gusto avrebbe suggerito di escludere, e la sensazione di fastidio è la stessa che si prova davanti a chi, per testimoniare l’umano terrore, si scatta un egocentrico selfie (con aria rigorosamente contrita) all’ingresso di Auschwitz o a Ground Zero, per poi condividerlo sui social.
Inoltre, al netto delle considerazioni sulla qualità e la natura del documentario, viene da chiedersi quale sia il vero contributo di Ai Weiwei al risultato finale, dato che per due ore e venti di film è ricorso a ben dodici diversi direttori della fotografia, e che l’artista, essendo spesso in campo, non è evidentemente mai dietro la macchina da presa.
Il risultato di questa collezione di ‘filmini turistici’ senza ispirazione trasforma un dramma in mera curiosità e porta a pensare che l’unico motivo per cui Human Flow sia in concorso al Festival di Venezia sia la celebrità del suo autore. Troppo, troppo poco per rendere giustizia a un argomento così importante. Nonostante i lunghissimi 140 minuti di durata.