Quando nel 2010 uscì Alice in Wonderland di Tim Burton le aspettative erano molto alte, specialmente perché si trattava di uno dei primi live action di uno dei classici Disney più amati di sempre, a sua volta adattamento del romanzo Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, apparentemente un libro di fantasia adatto ai bambini, che nascondeva però innumerevoli critiche sociali e temi di gran lunga più adulti di quelli che ci si aspetterebbe. È chiaro allora che tutti, pubblico e critica, si aspettavano dall’Alice di Burton un film estremamente legato alle tematiche e soprattutto all’estetica burtoniana. Fallimento totale. La sceneggiatura assai povera, la CGI preponderante e poco curato (il fatto di trovarsi nel Paese delle Meraviglie non giustifica il totale abbandono del reale manifesto), il 3D un brutto fantasma di quello visto due mesi prima in Avatar, il cast stellare ridotto a caricature fastidiose e infine la prima vera catastrofe del duo Burton-Depp, che invece veniva dal successo del bellissimo Sweeney Todd- Il diabolico barbiere di Fleet Street. Ci si aspettava dunque una proposta dark del classico di Carroll, ma quello che ne uscì fu semplicemente un film noioso, tanti colori e poca sostanza. Gli incassi furono ottimi, d’accordo, ma c’erano le condizioni per farne un seguito a sei anni di distanza? Probabilmente la Disney aveva bisogno di riportare sotto una buona luce la sua Alice, se pensiamo soprattutto alle innumerevoli produzioni di film in live-action di classici animati. La pochezza del primo capitolo aleggia nell’aria come un fantasma minaccioso e il pubblico probabilmente rimane per nulla curioso nei confronti della pellicola. Inoltre il film è uscito nelle sale nel momento peggiore per il divo di primo richiamo Johnny Depp: uno spauracchio di un passato da vero divo del cinema, si presta unicamente allo stesso ruolo di fool shakespeariano molto scemo e poco acuto, mentre la sua vita privata è ormai stampata sulle prime pagine di ogni giornale di gossip che lo vedono violento nei confronti dell’ormai ex moglie Amber Heard.
Contrariamente a quanto il titolo suggerisce, la trama non ricalca affatto Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò scritto nel 1871, manovra questa che era già stata applicata per Alice in Wonderland del 2010, sostanzialmente un insieme di elementi presi sia dal primo che dal secondo romanzo di Carroll. Questo non è assolutamente un difetto del Cinema: la libertà di movimento, di manipolare il tempo, di rendere fotogenico ogni elemento (importantissimo e insostituibile) in scena, di poter rendere in pochissime inquadrature gli stessi avvenimenti che coprirebbero innumerevoli pagine di un libro, lo rende un linguaggio totalmente a sé stante, libero da ogni reverenza nei confronti della più longeva arte della letteratura. Il continuo confronto tra il film e l’originale è una pratica del tutto inutile e superflua a meno che non sia oggetto di studio critico e precisamente fondato su una osservazione degli intenti degli autori, dei temi e della loro contestualizzazione nel tempo di produzione dei due testi. Per questo stesso motivo il Cinema resta ad oggi l’arte più libera e democratica mai prodotta, indipendente, slegata, sovrano unico del proprio linguaggio. Per lo stesso principio, mai si dovrebbe ripudiare il puro cinema d’intrattenimento, arte tanto quanto il cinema più colto, perché riesce comunque a prendere lo spettatore in un turbinio di voyeurismo condiviso con gli altri in sala, ponendo chiari e innegabili gli stessi meccanismi di identificazione empatica propri dei film più “impegnati”. Tutto ciò per dire che il pregiudizio nei confronti di Alice attraverso lo specchio era del tutto assente, soprattutto alla luce del fatto che James Bobin (questa volta è lui il regista, e non Tim Burton che veste in questa occasione solo i panni di produttore) aveva per l’occasione carta libera. Se da una parte ha reso al meglio la scenografia, per la quale non ha voluto utilizzare totalmente il CGI ricreando alcune, poche, scene dal vero, i colori, gli splendidi costumi, aggiungendo quel pizzico di dark che mancava totalmente a Burton, dall’altra si è scontrato con una sceneggiatura realmente scialba, povera, al limite del ridicolo. Eppure la sceneggiatrice è Linda Woolverton, già autrice di capolavori Disney come La Bella e la Bestia nel 1991, Il Re Leone nel 1994 e Mulan nel 1998.
Le avventure di Alice (Mia Wasikowska), che torna casualmente nel Sottomondo dopo tre anni dal suo primo viaggio, sono questa volta totalmente al servizio del suo amico Cappellaio (Johnny Depp), gravemente malato, più matto del solito, convinto che la sua famiglia sia fuggita al Ciciarampa anni fa e sia ancora viva, perduta chissà dove. Accolta dalla regina Bianca (Anne Hathaway), dal Bianconiglio, Pincopanco e Pancopinco e lo Stregatto (che porta la voce del compianto Alan Rickman) le viene spiegato che l’unico modo per salvare la famiglia del Cappellaio è quello di rubare la cronosfera al Tempo in persona (Sacha Baron Cohen), tornare indietro di molti anni e cambiare così la storia. Dopo essere riuscita nel furto, e aver incontrato la sua vecchia nemica Regina Rossa (Helena Bonham Carter), Alice è inseguita dal Tempo, bramoso di ritornare in possesso della cronosfera, scongiurando la distruzione del Sottomondo.
Quante complicazioni inutili, quante peripezie assolutamente superflue, quanta confusione… Non si capisce dove il film voglia arrivare, quale sia il messaggio da mandare, quale siano gli intenti della sceneggiatrice e del regista, in totale preda a troppe storyline che non riescono a convivere tra loro senza stridere fastidiosamente. In particolare, la storyline del Cappellaio, che dovrebbe essere la principale, non desta la minima curiosità, forse perché è un lontano déja vu di quella di Willy Wonka ne La Fabbrica di Cioccolato di Tim Burton. Più interessante quella della Regina Rossa, ma che poi finisce per svilupparsi secondo le solite corde ormai troppo abusate dopo Frozen- Il regno di Ghiaccio: il rapporto distrutto e poi ricostruito con una sorella. Unico elemento bello e accattivante è il personaggio del Tempo: molto ben concepito, ben scritto e infine rappresentato (la location del Castello del Tempo è di rara bellezza e precisione), è il vero protagonista del film, mette in ombra tutti gli altri personaggi, Alice compresa (che non fa nulla di più che correre e correre), non è un villain crudele e senza cuore, ma semplicemente inevitabile. Il suo è un Caronte di Sottomondo, superiore ma non distaccato, saldo ma non di ghiaccio, sovrano ma non oppressore. Sacha Baron Cohen resta un attore sottovalutato, ricordato per i suoi Ali G., Bruno, Borat (comunque non comici ma satirici), ma che ha sempre dato il meglio in quelle parti ibride e sempre sul filo tra commedia e tragedia (come ogni personaggio che si rispetti): Adolfo Pirelli di Sweeney Todd (Tim Burton, 2007), l’Ispettore Gustav di Hugo Cabret (Martin Scorsese, 2011), Monsieur Thénardier ne Les Misérables (Tom Hopper, 2012), sono tutti personaggi sfaccettati e complessi, non riducibili a semplici macchiette, permettendo a Cohen di mostrare tutto il suo talento di attore e di spiccare in primo piano anche nelle grandi produzioni nelle quali veste i panni di personaggi secondari.
Tutti questi elementi denotano quindi la superficialità con cui è stata trattata la materia prima, la mancanza di voglia da parte di tutti gli autori è tangibile e prepotente e lo specchio del film non è niente altro che il riflesso di un impegno pallido e spento.
Alice Attraverso lo Specchio: uno spreco di Tempo?
Di Elena Pisa
Il sequel del live action Disney ambientato nel Paese delle Meraviglie è confusionario e debole. Ne sentivamo il bisogno?