Tratto da una storia vera, Il Caso Spotlight (fresco vincitore dell’Oscar come miglior film e migliore sceneggiatura) si lascia vedere senza particolari sussulti. Il numero imponente di candidature legittima grandi attese nello spettatore, ma purtroppo l’esaltazione è una chimera lontana.
Sia chiaro. La trama del film di Tom McCarthy è quanto meno attuale ed il suo svolgimento non ha pecche di alcun genere: con un crescendo di presa di coscienza e stupore collettivo, quattro giornalisti d’inchiesta del Boston Globe, nel lontano (e nefasto) 2001, affrontano lo scabroso ed inquietante tema della pedofilia all’interno della Chiesa cattolica.
Il caso Spotlight non sfiora nemmeno citazioni di altre prospettive.
Non ci sono inquadrature morbose, nessuna forzatura o pugno nello stomaco. Nessun flashback a tinte forti. Non una tonaca sollevata o ambiguità nel confessionale. L’impostazione resta sempre sul taglio giornalistico, sulla visione d’insieme che vuole un tema così scottante slegato da episodi isolati (se non nella parte iniziale) ed esteso ad un Universo intero, certamente taciuto per molto, troppo tempo. A colpire, ma non a stupire, resta infatti quella sensazione acre di connivenza trasversale, di omertà, tra fedeli, personalità locali e vertici delle curie.
Nonostante la mancanza di acuti, il cast è di quelli giusti.
Dismessi i panni di Birdman, Michael Keaton si cala nel ruolo di Walter Robinson, leader del team d’assalto “Spotlight”, riuscendo in gran parte a convincere. La sua è un’interpretazione certamente meno illuminata rispetto a quella del Riggan Thomson del film di Iñárritu e francamente la candidatura all’Oscar avrebbe meritato miglior sorte in quei panni piuttosto che in questo caso.
Al suo fianco un altro supereroe a mezzo servizio, Mark Ruffalo. Certamente ombroso al punto giusto, incalzante come da identikit del bravo reporter, eppure mai coinvolgente. La sua nomination e quella della collega Rachel McAdams aprono ad un’ipotesi non da scartare, e cioè che sia la formula del film ad essere penalizzante, dato che la Storia sovrasta i suoi interpreti, facendone dei semplici strumenti di racconto senza mai approfondire alcuno scorcio della loro personalità.
Lo stesso, infatti, accade per Stanley Tucci, ottimo caratterista di lungo corso che nei panni di Mitchell Garabedian, avvocato difensore di molte vittime di abusi, dà voce e volto ad un uomo coraggioso, schiacciato tra dovere morale ed il cono d’ombra dell’establishment ecclesiastico.
McCarthy realizza un bel film, dando giusto compimento ad un tema non più rimandabile, sottolineando come l’irruenza di un’inchiesta giornalistica (per la cronaca vincitrice del Pulitzer nel 2003) possa se non debba aggredire quegli aspetti della società contemporanea ancora colpevolmente irrisolti.
Tuttavia resta l’impressione di aver assistito ad un ottimo esercizio di stile. Senza emozione, ma con ben 2 Oscar…