Finalmente siamo in sala per The Hateful Eight, il nuovo film di Tarantino. Non una sala qualsiasi: siamo all’anteprima al Teatro 5 di Cinecittà. Foyer allestito con una scenografia western innevata. Proiezione in 70mm, di quelle che renderebbero importante anche l’ultimo film di Neri Parenti. Stupore garantito.
Come previsto niente trailer, ma un’ouverture con la sala buia e lo schermo fermo su una grafica a tema che spiega, indovinate un po’, che quella che stiamo ascoltando è l’ouverture di The Hateful Eight. È questo il cerimoniale del 70mm. Ma come le note della colonna sonora che è valsa una nomination agli Oscar al nostro Ennio Morricone si diffondono per la sala, ci rendiamo conto di quanto la presenza di un pubblico ignorante e diseducato alla cultura sia in grado di ammazzare in mezzo secondo l’epicità del momento. Durante l’ouverture si chiacchiera a voce alta e in piedi, un po’ tutti, un po’ come fosse un aperitivo. Tanto il film mica è cominciato, no? The hateful one, il sottoscritto. In tutto ciò non si sente il Morricone “Leoniano” che era lecito aspettarsi, un Morricone che torna al western per reclamare la statuetta dorata riecheggiando i suoi classici. Anzi, le sonorità ricordano molto le meravigliose note con cui Bernard Herrmann costruiva la suspance per Hitchcock. Ma ci sarà tempo durante tutta la pellicola per apprezzare il meglio della colonna sonora.
Si inizia. “Capitolo uno: L’ultima diligenza per Red Rock”. Un crocifisso innevato. Infinite distese innevate, panorami con montagne innevate e boschi innevati che si perdono a vista d’occhio. Nascosto lì da qualche parte ci sarà DiCaprio che balla la Ice Dance con un orso, penso.
Se esiste un’idea di pornografia in Ultra Panavision 70mm, è questo inizio.

Un threesome cinefilo.
La fotografia di Robert Richardson sfrutta con estrema esperienza le peculiarità del mezzo, proponendo insistentemente minuscole figure scure che si fanno largo nella vastità di un bianco prepotente che fa male agli occhi, che soverchia come la natura indomabile della tempesta che insegue la diligenza del titolo. Dei riverberi luminosi così sfacciati da far sentire J.J. Abrams un signor nessuno invadono il buio del trasporto in cui viaggiano Kurt Russell, Samuel L. Jackson e Jennifer Jason Leigh (quella che fino a ieri conoscevamo in quattro gatti e oggi è all’improvviso l’attrice preferita di tutti da sempre). Da subito è evidente come i costumi troppo teatrali di Courtney Hoffman sembrino una caricatura del già caricaturale linguaggio Tarantiniano. Meravigliosi, sì, ma proprio per questo così macchiettistici ed eccessivi da rischiare di trascinarti fuori dalla narrazione.
Poi ti ricordi che la costumista è la compagna di Tarantino e capisci l’indulgenza.

Un po’ Zorro, un po’ X-Men
“Capitolo due: Figlio d’un cane”. E mentre una sceneggiatura poco convincente obbliga i nostri viaggiatori a dare un passaggio al detective di The Shield (un Walton Goggins un po’ troppo scemo), arrivano gli scambi più divertenti del film. Il pur fenomenale Jackson fa sempre lo stesso personaggio (se escludiamo quanto visto in Django), Kurt Russell stupisce positivamente per la caratterizzazione che riesce a far emergere nonostante sia asserragliato dietro a baffoni e pellicce, e Jennifer Jason Leigh inizia a conquistarci. È evidente che si è messo in moto un meccanismo ad orologeria che ci porterà al cuore del film.
“Capitolo tre: L’emporio di Minnie”. Che, ripensandoci, è sostanzialmente il primo tempo del film, dato che quanto mostrato prima era un grande prologo. I nostri otto sono finalmente tutti in scena, a riparasi dalla bufera in una stamberga in cui regna un’aria di cordiale sospetto.
Oltre a un Kurt Russell padrone della scena e a una Jennifer Jason Leigh che ormai ha gli spettatori in pugno grazie a una delle più straordinarie performance che si ricordino in un film di Tarantino, c’è Samuel L. Jackson che fa Samuel L.Jackson, il sempre impeccabile Bruce Dern che interpreta una poltrona, il clone annoiato di Michael Madsen vestito come una poltrona, Tim Roth che fa il cosplay di Christoph Waltz in Django e O.B. e il Messicano che fanno numero. Mentre un’inusuale fissità (per un film di Tarantino) costruisce un climax più sofisticato del solito, ci rendiamo conto di un’ineludibile verità.
In The Hateful Eight di western non c’è neanche l’ombra.
Non che ne sentissimo la mancanza, anzi. Ma fino all’intervallo (altra tappa del cerimoniale nel formato 70mm) abbiamo visto qualcosa che ci ha sorpreso. Per la prima volta il nostro Quentin si è cimentato con il genere giallo. Una lunga attesa fatta di silenzi sospettosi e allusioni costruisce un’atmosfera affascinante (complice sempre la clamorosa luce diegetica di Richardson e le atmosfere Hitchcockiane costruite da Morricone) e dal fortissimo sapore teatrale. Ci piace questo nuovo Tarantino, tanto che quel gruppo di soggetti biasimabili costretti a sopportarsi l’un l’altro in quel buco di ambientazione ci fa pensare un po’ al Sartre di “Huis Clos” (la piece che ruota attorno all’idea secondo cui “l’inferno sono gli altri”) e un po’ al Buñuel di “El ángel exterminador“. Nessuno si aspetta o vuole un film intellettualoide, ma con la sua mano pop, dissacrante e straordinariamente divertente Tarantino potrebbe aver toccato una nuova vetta. Sarà il secondo tempo a chiarirci le idee.
Dopo un primo tempo sospeso tra Agatha Christie e Jean-Paul Sartre cosa accadrà? Nulla più. Come un bambino che dopo esser stato un po’ a teatro si rompe le palle e corre fuori a saltare nelle pozzanghere, così il regista cambia totalmente registro e si mette entusiasta a sguazzare nel sangue.
Si rientra in sala ma è evidente che è cambiato tutto. La scelta della sterzata improvvisa non necessariamente avrebbe dovuto implicare un crollo del film, ma in un batter d’occhio siamo in nel pieno cliché Tarantiniano. Un Tarantino così artefatto da sembrare quasi Robert Rodriguez. Nel “Capitolo quattro: Domergue ha un segreto” la sceneggiatura regala a Jackson il ruolo dello Sherlock Holmes pistolero mentre Tarantino già pensa a un trionfo di pulp, tra avvelenamenti e colpi di scena. Ad esser sinceri però potremmo dire che il termine ‘pulp’ rischia a volte di diventare un eufemismo per ‘trash’, dato che tra sangue vomitato a secchiate e coglioni che esplodono potremmo quasi dire di aver davanti un cinepanettone gore. O meglio potremmo se sulla locandina del film non fosse riportato il nome di Tarantino, ovvio.
Comunque tra pornografia della violenza, stalli alla messicana e costruzione della tensione, un nostalgico pensiero vola a opere come “Pulp Fiction” o “Le Iene“, che tanto hanno significato nella creazione del linguaggio cinematografico di fine secolo anche grazie alla stratificazione di letture che nonostante tutto erano capaci di offrire. Qui invece è purtroppo evidente che quella freschezza è lontana anni luce e non c’è nulla di meravigliosamente ‘sfuggente’. Abbiamo un regista incredibilmente talentuoso che però ha molte meno idee e si diverte semplicemente a fare quel che gli piaceva da ragazzino. Gli piaceva il western e fa il western (poco importa che l’ambientazione di genere qui sia più un limite autoimposto che una ricchezza), gli piaceva il pulp e fa il pulp (anche se non era affatto indispensabile). La Nouvelle Vague stavolta la lasciamo a dormire.
Giunta quasi alla fine, la pellicola ci regala la peggior scelta di casting di sempre.

È qui che danno il botox?
Ora siamo al “Capitolo cinque: I quattro passeggeri” e la sensazione è quella di una tappa obbligata che aggiunge qualche morto ammazzato in flashback in attesa del gran finale. È però qui che arriva il vero orrore, e non sono le cervella che saltano come fuochi d’artificio o il sangue che innaffia tutto come un buon vino rosso, ma l’inspiegabile scelta di Channing Tatum come nono ‘hateful’.
Tatum a dirla tutta non pecca di perizia nel restituire il ruolo un po’ scialbo del capo della banda, ma il problema è che se c’è qualcosa di più inespressivo di un attore troppo bello è un attore troppo bello pieno di botox. Il suo viso gonfio e paralizzato trascina via dalla finzione molto più dei costumi di cui sopra, e nulla possono quei capelli leccati che provano a distrarre dalla maschera inespressiva che ha in volto.
Intanto siamo già all'”Ultimo capitolo: Uomo nero, inferno bianco”, e non ci aspettiamo più che l’ennesimo bagno di sangue condito da un pro forma di thriller psicologico. Titoli di coda. E no, il miglior Morricone non lo sentivamo da anni e non lo abbiamo trovato nemmeno stavolta (a dispetto della candidatura assegnata dall’Academy). La colonna sonora è veramente bellissima, ma ci rimanda ad altro e sembra quasi incoerente con la ‘poetica’ musicale del nostro straordinario compositore.
Tarantino il cinema lo sa fare come pochi, ma ormai è evidente che la scintilla non c’è più e la ripetitività del suo canovaccio fa quasi più pensare alle tappe immancabili di un cinecomic (perdonate la provocazione) che ai temi ricorrenti di un grande regista. C’è lo stereotipo del criminale spietato, lo stereotipo dell’europeo, lo stereotipo del nero in cerca di riscatto, la divisione in capitoli, la narrazione non lineare e il finalone inondato di sangue. E se qualcuno potrebbe obiettare che questa bomba a orologeria ha lo scopo di accompagnare lo spettatore in modo lucido e consapevole verso la deflagrazione finale, la nostra risposta è che il migliore Tarantino ci permetteva di perderci. Ancora una volta la riscoperta del cinema di genere affievolisce quella selvaggia spinta creativa che tutti abbiamo amato, e se è sicuramente apprezzabile l’intento politico (in parte pretestuoso) di un’opera che denuncia le deboli fondamenta su cui è stato costruito il sogno americano, permane l’impressione che la tridimensionalità di quel giovane regista che aveva fatto del rekombinant la propria cifra stilistica si sia persa un po’ per strada. Peccato, perché quel regista lo amavamo. Va pur detto però che forse sarà proprio questa cristallizzazione dei topoi Tarantiniani, questa stereotipizzazione insistita e ricercata, a fare di The Hateful Eight una delle pellicole più iconiche della produzione artistica del regista. Chi vivrà vedrà.