Dopo una convincente première la seconda stagione di American Crime Story, incentrata sul caso dell’assassinio di Gianni Versace, sembrava procedere sugli stessi binari dell’acclamato The People vs O.J. Simpson: Ryan Murphy, showrunner della serie antologica del network basic cable FX, era consapevole del richiamo mediatico di una pagina di cronaca nera che a vent’anni di distanza è ancora in grado di generare aspre polemiche. Una storia affascinante, un cast carismatico e una produzione di altissimo livello: c’erano tutti i presupposti (e tutti gli ingredienti) per replicare lo straordinario successo dello scorso anno. Lo diciamo sin da subito: American Crime Story: The Assassination of Gianni Versace è la prima, cocente delusione di questo inizio 2018 seriale.
LA PARABOLA CRIMINALE DI ANDREW CUNANAN
A differenza del tam tam pubblicitario che ne ha anticipato l’uscita, lo show (andato in onda da noi su Fox Crime) mette la famiglia Versace in secondo piano: la seconda stagione infatti è incentrata quasi interamente sulla figura di Andrew Cunanan (Darren Criss), un serial killer che, il 15 luglio 1997, ha assassinato Gianni Versace (Édgar Ramírez). Nel corso dei nove episodi di The Assassination of Gianni Versace ci viene mostrata la folle storia di un uomo mediocre dal fascino irresistibile. Cunanan, per mantenere il suo alto tenore di vita, fa il gigolò d’alto bordo; tuttavia, la sua psicopatia e i suoi disturbi della personalità lo porteranno a compiere diversi delitti, oltre all’omicidio Versace (sono ancora misteriose le motivazioni che hanno portato l’assassino ad uccidere lo stilista). La serie però racconta anche il rapporto tra Versace e la sorella Donatella (Penélope Cruz), un legame fortissimo ma non sempre idilliaco anche per la presenza ingombrante dell’amante storico di Gianni, Antonio D’Amico (Ricky Martin).
IL RITRATTO AMBIGUO DI UN PERSONAGGIO BORDERLINE
Nell’articolo dedicato alla première avevamo fatto cenno alle critiche ricevute dallo show di Ryan Murphy prima della messa in onda americana da parte della famiglia Versace, smorzate però da un primo episodio che lasciava intravedere un grandissimo potenziale: sembrava proprio che il romanziere e sceneggiatore Tom Rob Smith fosse riuscito a trovare un equilibrio nella gestione delle storylines di due main characters estremamente diversi ma legati tra loro dal destino beffardo. Nel corso degli episodi però cominciava chiaramente a delinearsi un quadro in cui Gianni (interpretato da un fantastico Édgar Ramírez) e Donatella Versace (una splendida Penélope Cruz) si trasformavano in vere e proprie comparse di lusso per lasciare spazio al grande protagonista di American Crime Story: The Assassination of Gianni Versace, il controverso killer Andrew Cunanan.
Siamo ormai abituati alla rappresentazione in TV di antieroi affascinanti ma capaci di compiere terribili delitti (due esempi sono Dexter Morgan e Pablo Escobar); però, dietro questi personaggi, c’è un grandissimo lavoro di sceneggiatura in grado di mettere in difficoltà lo spettatore, sottolineando esemplarmente il loro lato oscuro. Nella seconda stagione dello show FX invece questo elemento non è evidenziato in maniera soddisfacente, soprattutto nelle due puntate finali: dopo averci presentato un personaggio odioso, totalmente privo di empatia e di umanità, ecco che Smith compie l’errore di “giustificare” le sue azioni. Mostrare nel finale il difficile percorso di crescita di Cunanan (che indubbiamente ha alimentato la sua natura omicida) per renderlo agli occhi del pubblico più umano è stata una mossa estremamente poco felice (e ambigua) da parte dello scrittore inglese.
L’INGANNO DI MURPHY NEI CONFRONTI DEI TELESPETTATORI
La scelta di focalizzarsi solo su Andrew Cunanan è stata coraggiosa da un certo punto di vista però Ryan Murphy, in questa occasione, è stato disonesto nei confronti dei fan: tutta la campagna pubblicitaria della seconda stagione di American Crime Story infatti è stata costruita attorno alla famiglia Versace. Prendere Édgar Ramírez e Penélope Cruz per attirare il pubblico e poi relegare i due attori al ruolo di comprimari, lasciando a Darren Criss (che ce la mette tutta per essere al loro livello ma non riesce a competere per talento e carisma) un’intera stagione sulle spalle, è un atteggiamento ingannevole e irrispettoso per chi guarda lo show.
Smith, sceneggiatore di tutti gli episodi, non gestisce il ritmo narrativo in modo ottimale e inserisce strumentalmente un tema delicato come i diritti civili della comunità LGBT senza aggiungere nulla di concreto alla trama; non basta un buon finale, in cui emerge prepotentemente il parallelismo tra Versace e Cunanan, per risollevare le sorti di un prodotto che ha perso una grande occasione: quella di far chiarezza su una vicenda non ancora del tutto limpida.
Che American Crime Story stia seguendo la parabola discendente di American Horror Story? Fare oggi questo paragone non porta a nulla anche perché lo scenario in casa Fox è cambiato dopo l’acquisizione della Disney, spingendo Ryan Murphy a lasciare il network. L’accordo firmato dallo sceneggiatore/regista con Netflix per la cifra monstre di 300 milioni di dollari non mette a rischio, in linea di principio, le creature televisive di FX dello showrunner americano ma è pur vero che il loro futuro diventa sempre più incerto: recentemente Murphy ha annunciato che la quarta stagione di American Crime Story non tratterà il caso Clinton/Lewinsky, mettendo in discussione lo show stesso (anche se è già stato confermato il terzo capitolo, dedicato alla tragedia dell’uragano Katrina). La serie antologica in passato è stata capace di raccontare perfettamente l’America basandosi su un celebre fatto di cronaca: il nostro augurio è che American Crime Story possa ritornare ad una narrazione che metta al primo posto la Storia, non solo i suoi aspetti glamour.