Gianni Amelio ha presentato fuori concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il suo ultimo cortometraggio Casa d’altri, ambientato tra le rovine di Amatrice (qui la nostra recensione). In occasione dell’incontro con la stampa ci ha parlato del progetto e, più in generale, del post-terremoto.
Ci può spiegare la scelta del titolo per il suo cortometraggio?
Il titolo è un omaggio a uno dei racconti più belli del Novecento italiano, che è Casa d’altri di Silvio D’Arzo. Anche se non c’entra nulla con la storia, mi è sembrato giusto ricordarlo con il titolo del mio piccolo film che entra in una realtà dove bisogna avere molta cautela.
Un mezzo come la telecamera può essere un’arma, ho cercato invece di utilizzarla con il massimo del pudore, perché entrare in casa d’altri significa avere rispetto per gli altri e capire soprattutto i loro problemi.
Ho inventato questo piccolo filo narrativo, un uomo che cammina mostrando una piccola fotografia che noi non vediamo, vediamo soltanto il retro in bianco: la mostra alle persone che forse non sono neanche del luogo, infatti la mostra a dei militari, la mostra a qualcuno distratto che parla al telefono… L’uomo cerca qualcuno che ha perduto e che sa che non esiste più, solo che la mente ormai è andata chissà dove e non lo lascia fuori da quel ricordo, ma alla fine del mio racconto si concretizza l’idea che non basta il ricordo per risolvere il problema.
Se bastasse la memoria, allora non succederebbe mai più un altro terremoto, invece ne è successo un altro qualche settimana fa. Se probabilmente quello di Amatrice aveva il carattere dell’inevitabilità, data la struttura delle case, quello di Ischia apre invece un altro discorso.
Molte delle case crollate ad Ischia sono state costruite anche di recente, ma senza nessuna norma, senza nessun rispetto per la vita, ed ecco che la rabbia aumenta e non si vuole piangere, perché con le lacrime la rabbia va via… Quindi ho cercato di essere il più onesto possibile per non lasciarmi prendere dalla commozione. Bisogna dire che c’è l’uomo che sbaglia, non è il destino né il fato che impone una tragedia dall’alto. La tragedia che potrebbe essere evitata l’uomo non la evita speculando sulla vita degli altri uomini.
Lei ha avuto la possibilità di avvicinarsi non solo alle macerie che vediamo, ma anche alle persone, ai loro sentimenti, alla loro umanità. Un anno dopo il terremoto che emozioni ha trovato, che situazione ha trovato non solo fisicamente?
Io so, grazie alla mia esperienza di vita che il tempo lenisce quasi tutto, forse non c’è dolore che il tempo non guarisca… Ma non è questo il problema: non è guarire da un dolore, ma è fare in modo che quello stesso dolore non si ripeta, quando si è capito che quel dolore non è frutto di qualcosa troppo più grande di noi, ma l’abbiamo provocato noi.
Quindi il titolo l’ho scelto per omaggio a D’Arzo che ha scritto questo romanzo bellissimo, ma soprattutto perché io entro con un’arma, che è la macchina da presa e un microfono, in una casa che non è più agibile a livello di vita e di sentimenti: entro con la voglia di morire, di non entrare più in un’altra casa come quella.
È rimasto fuori altro girato dai 15 minuti del suo racconto?
In realtà i 15 minuti sono il doppio dell’idea iniziale. Ero partito con l’idea di fare una cosa molto breve, che superasse di poco i 5 minuti, avere due o tre immagini e due o tre parole, ma poi la durata è venuta fuori da sé. All’inizio c’era solo la volontà di far parlare le persone e invece mi è sembrato più efficace il silenzio di quell’uomo che cerca con la fotografia in mano, poi ho unito le due cose…
Come si ripara l’irreparabile di una tragedia come quella che ha colpito Amatrice o Ischia?
Io non sono pessimista né fatalista, il terremoto non lo manda il destino, il terremoto si sa che succede e proprio per questo noi dovremmo agire contro questa possibile rovina.
Ma non lo facciamo, tanto la cosa non ci riguarda, succede in casa d’altri, quindi privilegiamo altri interessi. Se qualcuno pensasse che invece potrebbe succedere alla propria di casa, non costruirebbe senza seguire le norme. Accade una cosa strana ogni volta che io vado in Giappone, può succedere di svegliarsi con una scossa di terremoto di tanto in tanto… In quel caso corro giù nella hall agitato ed impaurito e tutti i giapponesi mi guardano strano e io dico, “C’è il terremoto” e tutti quanti ridono. Si costruisce ormai da tutto il Novecento in Giappone con norme antisismiche, può succedere un terremoto di qualunque dimensione e non crolla nulla.
I personaggi che sentiamo e vediamo nel suo corto, li ha incontrati negli stessi luoghi del disastro?
Io ci tengo a dire che Casa d’Altri non è un documentario, è un cortometraggio di finzione: volevo solamente mettere in risalto l’ipocrisia, l’incuria, la colpevolezza dell’uomo che sparge lacrime, invoca solidarietà o commemora, senza agire concretamente. Non è un caso che la frase più importante del corto sia la memoria non basta. Quello che dovrebbe insegnarci un terremoto è di arginarlo, ci vuole qualcuno che dica: io la mia casa e quella degli altri la costruisco in modo che il terremoto non me la faccia crollare con tutti i miei ricordi e affetti. Ad Ischia non sarebbe morto nessuno se le case fossero state costruite a norma di legge, non si deve piangere sulle macerie del destino, ma bisogna agire sulle colpe dell’uomo.
(a cura di Orazio Ciancone e Lorenzo Righi)