La recensione parla apertamente della trama della quarta stagione.
L’anno scorso, alla notizia dell’estensione di Orange is the new black fino alla settima stagione, tutti i fan avevano un po’ storto il naso. La terza stagione era risultata debole rispetto alle prime due, sia in termini di idee narrative che per quanto riguarda lo sviluppo dei personaggi, ormai quasi “spompati” e consumati. L’unica soluzione per rivitalizzare la serie era l’inserimento di facce nuove, poco importa se guardie o detenute; avevamo bisogno di nuove personalità, nuove storie, nuovi intrecci e nuovi spunti. Insomma, Orange is the new black doveva ricominciare.
Fuori tutto il corpo di guardia inefficiente delle prime tre serie e dentro Piscatella ed il suo gruppo di veterani, ben più efficienti e professionisti del gruppo quasi “amatoriale” di “Pornobaffo” (quanto manca, però, Pornobaffo?).
Arrivano poi le portoricane, cattive e violente, abituate al crimine e pronte a sovvertire il monopolio economico di Piper, ormai autentico Doppel-ganger di Walter White; da disadattata impaurita a “regina” delle panties.
Alex viene salvata da Lolly, Caputo diventa direttore del carcere e scopre gradualmente il modo disumano con cui viene gestito il carcere di minima sicurezza di Litchfield.
Non ci sono più innocenti. Piper come Icaro; vola troppo vicino al sole e si brucia (e che bruciatura), Alex diventa una assassina presa dai sensi di colpa e ancora di più preoccupata del possibile ritrovamento del cadavere nell’orto, le guardie sono sadiche e malate, tanto da essere il casus belli della protesta di Flores, della reazione violenta di Crazy Eyes (con le sue tragiche conseguenze) e dei moti insurrezionisti che consegneranno la pistola a Dayanara.
La classica struttura manichea si inverte una volta per tutte: i “cattivi” sono i nostri buoni, quelli a cui siamo affezionati, le detenute che ci tengono compagnia da tre anni, mentre i “buoni” sono i nostri nemici, gli antagonisti malati e avvelenati dal loro potere.
I dialoghi diventano azione e l’azione, che nelle scorse stagioni si esprimeva con il sesso, adesso diventa violenza sanguinosa; le piccole perversioni quasi “innocenti” delle precedenti guardie si trasformano in vera e propria malattia, come il cucciolo di topo che viene obbligata a mangiare Maritza Ramos; il budget risicato della prigione, che aveva portato nelle scorse stagioni a una qualità del cibo misera o alla mancanza di cartaigenica, si tramuta in una forma di lavora equiparabile alla schiavitù: “Edilizia 101”, ovvero scavare con la pala per una paga praticamente inesistente.
La nuova stagione di Orange is the new black è quindi “La Stagione”, con la “s” maiuscola. La stagione per cui Jenji Kohan ha lavorato così tanto. Grazie al successo di pubblico ottenuto in questi anni, infatti, la creatrice di Weeds ha operato senza vincoli o restrizioni di nessun tipo, confezionando un prodotto nel quale riesce a fondare umorismo, paura, thriller e denuncia sociale in modo impeccabile.
Basti pensare all’alienazione tragica di Healy. L’abbiamo visto in ogni episodio nelle prime stagioni, mentre oggi lo ritroviamo disperato, depresso, ma deciso a salvare Lolly Whitehill dall’essere mandata al reparto psichiatria. Fallirà e diventerà a sua volta un alienato e un depresso che tenterà il suicidio nel lago e nel momento più complicato per la prigione sarà in giro a prendersi un gelato.
Poi Judy King, la celebrità che viene ‘reclusa’ in una suite, insieme a tutti i comfort possibili e con la possibilità di fare quel che vuole.
La tesi allora è semplice: la prigione peggiora chi già di suo era malvagio e incattivisce le persone di ‘buona volontà’.
Tra le detenute della stessa fazione si crea un rapporto di solidarietà simile a quello di una tribù. Red non parla con Piscatella e celebra il ritorno di Nichols con una festa, come se esse fossero la sua famiglia, avvalorando un’altra tesi della Kohan, secondo la quale la prigione è completa alienazione. Taystee cerca di entrare su internet e leggere i gossip, così come si cerca disperatamente di conoscere ciò che succede fuori, sapere come progredisce il mondo.
L’alienazione” e i rapporti di forza sono allora i concetti chiave della nuova, splendida stagione di uno degli show più belli da anni a questa parte, grazie all’alchimia fra le attrici, ai nuovi personaggi e alla morte di Poussey che sicuramente, ci ha fatto capire oggi la Kohan, non sarà l’ultima. Capitolo a parte meriterebbe l’ultimo episodio, probabilmente il più riuscito dell’intera stagione. Kohan rappresenta le conseguenze della morte di Poussey alternandole a quella che probabilmente è stata la notte più bella della sua vita, tanti anni fa a New York, quando trovò i “The Rootz” anziché i “The Roots” e conobbe degli uomini travestiti da donne e degli uomini travestiti da monaci, all’interno di una cornice di infinita fratellanza.
Se come diceva Steiner ne La dolce vita “Non c’è redenzione fra le quattro mura”, allora l’unico modo per trovare la redenzione e uscire dalle quattro mura, rompere la quarta parete con il sorriso finale di Poussey, finalmente fuggita.